Luglio 23, 2024

INCOSTITUZIONALITA’ LEGGE REGIONE PIEMONTE 7/2022 (II parte).
LA VALIDITA’ DEI TITOLI EDILIZI MEDIO TEMPORE FORMATI

by sasti in Senza categoria

Nel precedente articolo[1] sono state trattate le censure accolte nella Sentenza n. 119 del 04.07.2024, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune disposizioni della Legge della Regione Piemonte 31.05.2022 n. 7 poiché in contrasto con le norme emanate dal Legislatore nazionale. 

Nel presente articolo, invece, si esaminano le principali problematiche relative alla validità dei titoli perfezionati durante il periodo di efficacia delle norme dichiarate costituzionalmente illegittime e la possibile reviviscenza della disciplina previgente (di cui alla L.R. n. 16 del 2018).

I. L’EFFICACIA DELLA DECLARATORIA DI INCOSTITUZIONALITA’
SUI PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI

Il tema afferente l’efficacia delle norme dichiarate incostituzionali trova i principali riferimenti normativi all’art. 136 Cost. (in base al quale “quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”) nonché all’art. 30 della Legge n. 87 in data 11.03.1953 (in base al quale “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”). Dal combinato disposto delle norme suindicate emerge chiaramente che le decisioni di incostituzionalità producono effetti erga omnes ed ex tunc, cioè con effetto retroattivo, seppur con le precisazioni di seguito indicate.

In proposito, è utile richiamare la nota del Consigliere presso la Corte Costituzionale[2] Dott. Danilo Diaco, il quale ha avuto modo di osservare che “le decisioni con le quali una legge viene dichiarata in contrasto con la Costituzione, a differenza di quanto accade con le pronunce di rigetto, producono non solo effetti erga omnes, ma anche ex tunc, cioè retroattivi (salvo quanto si dirà nel prosieguo del lavoro). Nel nostro sistema di giustizia costituzionale sembra ormai costituire jus receptum l’affermazione secondo la quale tali pronunce producono effetti tanto per il passato quanto per il futuro. Ciononostante, vi sono casi in cui “gli effetti temporali che dovrebbero derivare dalle pronunce appaiono, alla stessa Corte, eccessivi (tanto per il passato quanto per il futuro). Da un lato, è necessario garantire, allora, i soggetti danneggiati dalla disciplina riconosciuta in contrasto con la Costituzione senza ledere i diritti acquisiti in passato da altri soggetti che potrebbero subire effetti pregiudizievoli in caso di disapplicazione generalizzata della normativa dichiarata incostituzionale. […] Procedendo nella trattazione dei possibili limiti agli effetti della pronuncia di incostituzionalità, sembra opportuno ribadire che la loro efficacia retroattiva non è illimitata ma presuppone che i rapporti su cui la decisione può produrre effetti siano ancora pendenti, cioè suscettibili di essere azionati in un giudizio. Laddove tali rapporti siano esauriti, invece, l’incostituzionalità non produce alcun effetto, prevalendo ragioni di certezza del diritto sullo stesso principio di legalità costituzionale.

Pertanto, il problema della legittimità dei rapporti sorti durante la vigenza della norma incostituzionale passa necessariamente dalla valutazione circa la definitività del rapporto stesso. Sul punto, il Consigliere ha osservato che ““i principali meccanismi che determinano la chiusura di un rapporto giuridico, tale da impedirne ogni possibile sua azionabilità in giudizio, sono rappresentati dal giudicato, il quale, fissando definitivamente quanto statuito nella sentenza, impedisce ogni ipotesi di ulteriore impugnazione; dalla prescrizione del diritto, che ne determina l’estinzione quando il titolare non lo esercita per un certo periodo di tempo; dalla decadenza, che determina la perdita della possibilità di esercitare un diritto per non aver compiuto un determinato atto entro uno specifico termine fissato; dal principio del ‘tempus regit actum’”; dall’inoppugnabilità dell’atto amministrativo”.

Tali principi sono stati affermati già dalla giurisprudenza più risalente, la quale ha escluso il regime della inesistenza o della nullità dei provvedimenti amministrativi adottati sulla base di norme successivamente dichiarate incostituzionali, affermando che nei confronti dei medesimi si produca una invalidità sopravvenuta (o derivata) che soggiace al regime processuale della annullabilità (Consiglio di Stato, Ad. Plen., Sent. n. 8 in data 10.04.1963). Pertanto, la declaratoria di incostituzionalità della norma posta alla base dell’atto amministrativo non comporta la caducazione automatica del medesimo[3], ma è necessario che l’atto sia rimosso da un provvedimento adottato in autotutela dalla P.A., soggetto ai limiti prescritti dall’art. 21-novies della L. 241/1990, ovvero da un provvedimento del Giudice amministrativo. In altri termini, se l ‘atto non è impugnato, o è impugnato fuori dai termini, ed è decorso il termine per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela della P.A., lo stesso rimarrà produttivo di effetti giuridici. La tesi in argomento ha il pregio di individuare un equo bilanciamento tra esigenze di certezza del diritto e l’esigenza, parimenti meritevole di rispetto, di ripristino della legalità costituzionale.

Quanto appena esposto consente di affermare l’importante principio, ormai pacifico in giurisprudenza, in base al quale “in forza dell’art. 136 Cost. e dell’art.  30, l. 87/1953, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Consulta, la norma dichiarata incostituzionale non è più applicabile e gli effetti della declaratoria di incostituzionalità si estendono a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti al momento della decisione della Corte, rimanendone esclusi solo i cc.dd. rapporti già esauriti, ossia quei rapporti che abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate e intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, nonché del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale” (TAR Lombardia – Milano, Sez. III, Sent. n. 1507 in data 17.05.2024)[4].

In definitiva, trovando applicazione il regime dell’annullabilità dell’atto amministrativo che costituisca l’estrinsecazione della norma dichiarata illegittima, è evidente che gli effetti dell’incostituzionalità della norma presupposta sono suscettibili di incidere sull’atto solo ove il rapporto non è già esaurito, ossia censurabile, sulla base di quanto previsto dall’ordinamento.

II. LA VALIDITA’ DEI TITOLI EDILIZI

I principi suesposti trovano senz’altro applicazione anche in materia edilizia, seppur con talune peculiarità giustificate dalla natura dell’illecito, nonché dalle conseguenze, anche economiche, che l’illegittimità di un titolo edilizio può produrre sul privato, il quale vanta un legittimo affidamento sulla validità degli atti amministrativi e delle norme che giustificano l’agire pubblico.

Sennonché, la tutela del legittimo affidamento del privato non può essere affermata aprioristicamente, in quanto verrebbe a manifestarsi il rischio concreto di giustificare condotte potenzialmente opportunistiche del legislatore regionale che, nel perseguire interessi locali contrastanti con principi e linee guida nazionali, potrebbe teoricamente adottare norme consapevolmente incostituzionali (per contrasto con la disciplina nazionale) al fine di consentire interventi edilizi nel periodo necessario alla Consulta per pronunciare il provvedimento caducatorio, secondo le tempistiche che un giudizio di legittimità richiede. Ecco, allora, che appare necessario uno sforzo dogmatico ed ermeneutico aggiuntivo, che tenga conto dei principi dell’ordinamento interamente considerato.

Il problema, invero, è già stato oggetto di riflessione da parte della giurisprudenza amministrativa, chiamata a pronunciarsi in diverse occasioni sui limiti di legittimità dei titoli edilizi fondati su norme costituzionalmente illegittime. In particolare, secondo alcune pronunce, rileva l’individuazione del momento in cui un titolo edilizio può definirsi “definitivo”. Ad esempio, non è revocabile in dubbio la natura non definitiva di un rapporto in pendenza della domanda volta ad ottenere un titolo edilizio. In tali termini, è stata affermata la legittimità del “diniego di permesso di costruire in sanatoria che sia stato adottato sul presupposto dell’assoluta inapplicabilità del comma 4-bis dell’art. 12 della L.R. Campania n. 19 del 2009, perché norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza della Corte Costituzionale n. 107 del 2017, ove il rapporto doveva ritenersi a tale momento ancora pendente, per essere l’istanza di permesso di costruire in sanatoria non ancora esitata” (TAR Campania, Sez. II, Sent. 670 in data 30.01.2023).

Allo stesso modo, non sembra contestabile la natura non definitiva di una SCIA prima che siano decorsi i 30 giorni richiesti per il consolidamento degli effetti cui è diretta.

 Inoltre, deve ritenersi non ancora esaurito il rapporto afferente ad un titolo edilizio che sia soggetto al controllo di legittimità innanzi l’autorità giudiziaria. Infatti, “il giudice del caso concreto è senz’altro tenuto ad annullare l’atto che la parte ricorrente ha sottoposto al suo sindacato giurisdizionale, in ragione della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità delle norme che ne hanno permesso l’adozione”, a prescindere “dalla prospettazione, con apposito motivo, della questione di incostituzionalità della norma da parte del ricorrente” (TAR Puglia, Sez. III, Sent. 1056 in data 01.08.2023).

È senz’altro da escludere, poi, che il rapporto sia esaurito allorquando sussista in capo alla Pubblica Amministrazione il potere di annullare in autotutela il titolo edilizio, sia esso un permesso di costruire o una SCIA. Secondo una parte della giurisprudenza l’Amministrazione comunale non avrebbe l’obbligo di esercitare tale potere a seguito della sentenza di incostituzionalità[5], affermando la natura discrezionale del potere di autotutela anche in relazione a provvedimenti amministrativi adottati sulla base di norme successivamente dichiarate incostituzionali e quindi negando la configurabilità di un obbligo di annullamento.

Sempre sul tema della definitività del titolo edilizio, applicando i principi richiamati nel precedente paragrafo è stato osservato che “con riguardo agli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale sui titoli edilizi o – meglio – sui rapporti giuridici nascenti dai titoli stessi (permesso di costruire, oppure DIA o SCIA, anche se questi ultimi non costituiscono provvedimenti amministrativi), è opinione diffusa, anche in dottrina, che le sentenze come quella di cui è causa possano esplicare effetti anche su titoli già rilasciati, purché l’attività edilizia sia ancora in corso e non siano ultimati i lavori assentiti, trattandosi di rapporti giuridici pendenti e non ancora esauriti o definiti (giacché solo in tale ultima ipotesi le sentenze del Giudice delle leggi non potrebbero trovare applicazione)” (TAR Lombardia, Sez. II, Sent. n. 2147 in data 27.07.2012).

Invece, il Consiglio di Stato ha radicalmente escluso ogni rilevanza della “definitività” del titolo, posto che “la realizzazione di opere edilizie, di per sé, non è idonea a configurare un rapporto esaurito, in quanto, da un lato, la legittimità delle relative opere non è ancora accertata con sentenza passata in giudicata, dall’altro, non si ravvisa alcuna ipotesi di decadenza dell’Amministrazione dal potere di vigilanza in materia urbanistica ed edilizia, non soggetto a limiti temporali per il suo esercizio. La repressione degli illeciti urbanistico-edilizi costituisce, infatti, attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della commissione dell’abuso, in ragione del carattere permanente rinvenibile nell’illecito edilizio e dell’immanenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine violato, il quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al mantenimento dell’opera (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 12 marzo 2020, n. 1765)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. n. 2441 in data 04.04.2022). Quindi, unico limite all’efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalità sarebbe rinvenibile laddove si sia formato il giudicato sulla legittimità del titolo prima dell’intervento della sentenza che ha prodotto l’effetto caducatorio della norma che ne ha legittimato il rilascio

III. LE POSSIBILI CONSEGUENZE PENALI

Come noto, l’abuso edilizio costituisce, nelle ipotesi espressamente individuate dal D.P.R. 380/2001, una condotta penalmente rilevante, nella forma della contravvenzione. Pertanto, la presenza di un titolo edilizio (formalmente valido al momento del rilascio ma poi illegittimo per intervenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma presupposta) potrebbe ingenerare il dubbio circa l’esistenza di una responsabilità penale in capo al trasgressore, anche in considerazione dell’impossibilità di far valere, in relazione ai reati contravvenzionali, la mera assenza del dolo, quale elemento soggettivo costitutivo della fattispecie criminosa[6]. Pertanto, per completezza espositiva, appare utile un breve richiamo alle conseguenze della declaratoria di incostituzionalità sulle norme penali.

Nel diritto penale è incontestabile l’inefficacia ex tunc della norma illegittima che introduca una fattispecie criminosa e/o disponga un trattamento peggiorativo per il reo. Infatti, l’art. 30, comma 4, della L. 87 in data 11.03.1953 dispone che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”. In tali casi, producendo la sentenza costituzionale un effetto in bonam partem, non si configurano problematiche in relazione alla garanzia dei diritti del reo. 

Tale retroattività, invece, si atteggia diversamente laddove la norma dichiarata incostituzionale abbia medio tempore introdotto un trattamento di favor rei durante il suo periodo di efficacia, in quanto si rende necessaria una ponderazione di interessi tra l’esigenza di ripristino della legittimità costituzionale, la tutela della libertà personale espressa dall’art. 13 Cost., nonché la previsione di cui all’art. 25, comma 2, Cost., in base alla quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ed il principio della personalità della responsabilità penale, previsto all’art. 27 Cost., il quale attribuisce un’impronta assolutamente garantista al sistema punitivo. La ratio, in breve, è di impedire, da un lato, che un comportamento neutro sia successivamente ritenuto reato e, dunque, meritevole di pena; dall’altro, assicurare che il soggetto che ha realizzato la condotta sia messo nella condizione di sapere prima che tale ipotesi avrebbe configurato reato; il risultato finale perseguito è di garantire il bene primario della libertà personale del cittadino, la cui compressione può trovare giustificazione solo in via di extrema ratio

In proposito, dopo aver superato il problema della censurabilità di norme c.d. di favore[7], si è posto il problema di quale fosse il trattamento da riservare alle condotte medio tempore assunte. Sul punto, la giurisprudenza tradizionale ha ritenuto, similmente a quanto previsto per i Decreti Legge non convertiti, che l’effetto espansivo in pejus della norma generale si estenda esclusivamente ai fatti successivi alla declaratoria di incostituzionalità, continuando a trovare applicazione per i fatti antecedenti la lex mitior, seppur incostituzionale.

 Senonché, una parte della giurisprudenza ha obiettato che, mentre la disciplina dei fatti successivi è una inevitabile conseguenza, non possa trovare applicazione (né a fatti pregressi, né concomitanti, né successivi) una norma che, in quanto incostituzionale, non doveva e non poteva far parte dell’ordinamento giuridico.  Tale problematica viene risolta dalla giurisprudenza più recente distinguendo le ipotesi di abrogazione di norma incriminatrice da quelle afferenti la dichiarazione di illegittimità[8].

In ogni caso, la questione della rilevanza penale della condotta non sembra porre problemi di sorta in virtù del combinato disposto di cui all’art. 25 Cost. ed all’art. 2 c.p., in base al quale “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”. In altre parole, è escluso che possa configurarsi una responsabilità penale in capo al soggetto che, in virtù di un titolo edilizio efficace consolidatosi in base alla disciplina illo tempore vigente, abbia finito di realizzare un’opera che a seguito della declaratoria di incostituzionalità abbia assunto i caratteri dell’abusività. 

Al riguardo è bene precisare, però, che l’irrilevanza penale dell’abuso non incide sulle conseguenze amministrative, quali, ad esempio, l’illegittimità del titolo edilizio e l’ordine di demolizione adottato dal Comune. Pertanto, non è da escludere che, in seguito all’accertamento dell’illegittimità del titolo ed all’ordine di ripristino, il titolare dell’opera (divenuta) abusiva possa comunque incorrere nella responsabilità penale allorquando ometta di ottemperare alle richieste della Pubblica Amministrazione, stante la natura permanente dei reati edilizi.

IV. REVIVISCENZA DELLE DISPOSIZIONI ABROGATE
DALLA L.R. PIEMONTE N. 7/2022.

Ulteriore questione da risolvere attiene alla possibile reviviscenza della disciplina previgente, di cui alla L.R. n. 16 del 2018, ed abrogata dalla L.R. n. 7 del 2022, a seguito della declaratoria di incostituzionalità delle norme di quest’ultima.

Con l’espressione “reviviscenza” il lessico giuridico indica “la condizione di ripresa di vigore della situazione giuridica – ovvero del rapporto – oggetto della vicenda di temporanea – e/o permanente – stasi[9]. Il termine “reviviscenza” sembra costituire una nozione generica con cui i giuristi hanno inteso raggruppare una serie di ipotesi in cui si verifica un “ritorno in vita” di norme che si dovevano considerare relegate nel passato[10]

L’interprete è così chiamato a domandarsi quando è possibile considerare nuovamente vigente una norma che in precedenza è stata abrogata. Invero, il verificarsi della reviviscenza costituisce sempre il frutto di un’attività interpretativa, poiché uno dei caratteri comuni a tutte le ipotesi di reviviscenza consiste proprio nell’assenza, da parte del legislatore o dell’organo che procede al controllo di validità dell’atto normativo, di una dichiarazione di ripristino in forma espressa e vincolante erga omnes. Mediante tale attività, non soltanto il significato, ma la stessa vigenza di una norma dipende dalle valutazioni dei singoli Giudici o delle singole Pubbliche Amministrazioni.

Ciononostante, occorre considerare che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha maturato un orientamento preciso in materia. 

In particolare, “secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate ‘non opera in via generale e automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate (Sentenza n. 13 del 2012)’ […]. In particolare, l’ipotesi della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma che sia meramente abrogativa di una norma precedente, la quale torna per ciò stesso a rivivere (Sentenza n. 255 del 2019; n. 10 del 2018; n. 218 del 2015), non ricorre nel caso oggetto del presente giudizio, atteso il carattere non meramente abrogativo della disposizione censurata, la quale ha invece un contenuto normativo più ampio e sostitutivo di quella previgente. La mera declaratoria di incostituzionalità creerebbe solo un vuoto normativo e non sarebbe in grado di ripristinare, di per sé sola, il trattamento economico vigente al momento dell’accettazione dell’incarico”. (Corte Costituzionale, Sent. n. 7 in data 05.02.2020).

Invero[11], la giurisprudenza della Corte Costituzionale è pacifica nel senso di distinguere, agli effetti della reviviscenza, tra il caso in cui la norma dichiarata incostituzionale aveva meramente abrogato quella precedente, ed il caso in cui invece la norma illegittima aveva modificato o sostituito quella precedente. Solo nel primo caso, ossia quello di una mera abrogazione, la prima norma rivive pienamente, non nel secondo (Corte di Cassazione, Sez. III, Sent. n. 3592 in data 03.05.2022)

Pertanto, per stabilire se la precedente disciplina sia divenuta nuovamente efficace dopo la dichiarazione di incostituzionalità della norma che l’aveva modificata, risulta fondamentale stabilire se si sia trattato di una mera abrogazione o di una modifica dal “contenuto sostitutivo”.

La mera abrogazione presuppone che la disciplina successiva abbia come unico contenuto ed unico effetto quello di eliminare una disciplina precedente: non si può parlare di mera abrogazione se una norma non ha come esclusivo contenuto l’abrogazione di una precedente ma contiene una nuova e diversa disciplina, rispetto a quella abrogata, di una o più situazioni giuridiche, o di uno o più rapporti giuridici.

 Applicando tali coordinate ermeneutiche alle disposizioni della L.R. n. 7/2022 è possibile giungere ad alcune considerazioni.

In primo luogo, viene in rilievo l’art. 5 della L.R. n. 7/2022, dichiarato incostituzionale nella parte in cui, novellando i commi 1 e 2 dell’art. 3 della L.R. Piemonte n. 16/2018, avrebbe consentito la realizzazione degli interventi previsti dal cd. secondo piano casa anche su immobili oggetto di condono.

Tale intervento legislativo ha quindi sostituito le precedenti previsioni dell’art. 3, commi 1 e 2, della L.R. Piemonte n. 16/2018: quindi, la sopravvenuta incostituzionalità dell’art. 3 citato non può dare origine all’automatica reviviscenza della norma in precedenza abrogata. Del resto, la stessa Corte Costituzionale ha preso atto delle modifiche apportate a seguito di un nuovo intervento del legislatore regionale in materia (art. 1, comma 2, L.R. Piemonte n. 20/2023) con ciò circoscrivendo la portata della dichiarazione di incostituzionalità (“al rinvio antecedente a tale ultima riforma”).

L’art. 7 della L.R. n. 7/2022 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui ha introdotto il comma 9 dell’articolo 5 della L.R. 16/2018, consentendo aumenti volumetrici in deroga ai parametri edilizi e urbanistici previsti dagli strumenti urbanistici. Anche in tal caso, l’intervento del legislatore regionale può considerarsi sostitutivo della precedente disciplina di cui alla L.R. 16/2018; anche in tale circostanza, non opera l’automatica reviviscenza della norma previgente a seguito della Sentenza in commento, anche in considerazione della interpretazione “adeguatrice” operata dalla Corte Costituzionale, secondo cui gli aumenti volumetrici previsti dall’art. 5 della L.R. 16/2018 possono essere legittimi solo se conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici o autorizzati attraverso il permesso di costruire in deroga ai sensi dell’art. 14, comma 1-bis, D.P.R. 380/2001.

Particolarmente interessanti sono poi le conseguenze derivanti dalla declaratoria di incostituzionalità che ha investito l’articolo 8, commi 1 e 6, della L.R. n. 7/2022, nella parte in cui ha modificato quanto in precedenza disposto dall’art. 6 della L.R. n. 16/2018. In particolare, è stato ritenuto irragionevole un indiscriminato recupero dei sottotetti, compresi quelli futuri, ossia “recuperabili decorsi tre anni dalla realizzazione o ad avvenuto perfezionamento delle pratiche di legittimazione”. L’incostituzionalità di tale previsione non sembra poter comportare una semplice reviviscenza della precedente, considerato che già la formulazione della L.R. n. 16/2018, per come risultante dalle modifiche apportate con la L.R. 13/2020, contemplava la possibilità di recupero. Pertanto, l’adeguamento di tale previsione sembra non poter prescindere da un nuovo intervento del legislatore regionale in materia. 

Analogamente, a seguito dell’illegittimità dell’art. 8, comma 6, della L.R. n. 7/2022 appare imprescindibile una riformulazione normativa che tenga conto del necessario rispetto del principio di pianificazione del territorio e del rispetto degli standard urbanistici desumibile dall’art. 14 D.P.R. 380/2001, per consentire il recupero dei sottotetti esistenti.

L’illegittimità costituzionale dell’art. 41 della L.R. Piemonte n. 7/2022, che ha sostituito la disciplina di cui alle lettere a), b) e c) dell’art. 6 della L.R. Piemonte n. 19/1999, rivela l’esigenza di ripensare la disciplina regionale in materia di variazioni essenziali al progetto approvato, nel rispetto dei principi fondamentali della materia contenuti nell’art. 32 del D.P.R. 380/2001 ed elaborati dalla giurisprudenza amministrativa.

Infine, particolarmente interessanti appaiono le indicazioni esplicitate dalla Consulta in relazione alla disciplina recata dall’art. 47 della L.R. 7/2022, secondo cui “la reductio ad legitimitatem delle disposizioni impugnate s’ottiene attraverso l’espunzione, dal testo dell’art. 47, delle norme che consentono l’illegittima deroga ai piani urbanistici territoriali, ai regolamenti edilizi comunali e agi standard fissati dal d.m. n. 1444 del 1968”.

In altre parole, a seguito della declaratoria di incostituzionalità che ha interessato le citate disposizioni della L.R. Piemonte n. 7/2022, sembra esservi poco spazio per un’attività interpretativa volta a individuare possibili ipotesi di reviviscenza della normativa regionale precedentemente vigente, in quanto il rispetto delle indicazioni contenute nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 119/2024 presuppone necessariamente l’esercizio di un potere discrezionale e l’adozione di scelte pianificatorie di competenza del legislatore regionale.

[1] Per saperne di più: https://studiolegaledalpiaz.it/blog/incostituzionalita-legge-regione-piemonte-7-2022-corte-costituzionale-sentenza-n-119-2024-le-censure-e-le-conseguenze-i-parte/
[2] Rivista telematica Consulta online: “Gli effetti temporali delle decisioni di incostituzionalità tra Legge fondamentale e diritto costituzionale vivente”, fascicolo I – 2016 (pagg. 194 ss.).
[3] cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 5012 in data 03.11.2015; TAR Veneto, Sez. I, Sent. n. 210 in data 18.02.2019; TAR Campania, Sez. V, Sent. n. 5750 in data 02.10.2018; TAR Lombardia, Sez. II, Sent. n. 2342 in data 05.11.2015.
[4] cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 4523/2023; TAR Campania, Sez. II, Sent. n. 670/2023; TAR Trento, Sez. I, Sent. 29/2022.
[5] Tar Marche, sez. I, 5.1.2018 nn. 3 e 4; Tar Calabria, sez. II, 12.12.2016 n. 2404; TRGA di Bolzano, 1.7.2019 n. 157.
[6] Art. 42 c.p.: “Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”; Corte di Cassazione, Sez. III, Sent. n. 49026 in data 03.12.2019: “In tema di contravvenzioni e la caratteristica dell’elemento soggettivo di questa specie di reati è che l’azione o l’omissione può essere indifferentemente dolosa o colposa, con la conseguenza che non occorre per la loro punibilità il dolo, ma è sufficiente la colpa”.
[7] Corte Costituzionale, Sent. 394/2006: ha sancito l’ammissibilità della declaratoria di incostituzionalità di una norma penale avente ad oggetto una disciplina più favorevole per il reo.
[8] Corte di Cassazione, Sez. Un., Sent. n. 42858 in data 29.05.2014.
[9] Canzian Nicola, La reviviscenza delle norme nella crisi della certezza del diritto, Giappichelli, 2018, p.1.
[10] Ibidem.
[11] cfr. di recente, Consiglio di Stato, Sez. II, Sent. n. 3642 in data 22.04.2024; TAR Sicilia, Sent. n. 2117 in data 05.06.2024.