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ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO SENTENZA 09.12.2021 N. 22

LA VICINITAS QUALE CRITERIO DI LEGITTIMAZIONE PER IMPUGNARE I TITOLI EDILIZI

Con la recentissima pronuncia del 9 dicembre 2021, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato fa chiarezza sull’idoneità o meno della vicinitas a fondare insieme l’interesse e la legittimazione a ricorrere in materia edilizio-urbanistica, intese quali condizioni dell’azione amministrativa di annullamento.

La vicinitas nell’evoluzione giurisprudenziale

La vicinitas è un elemento fisico-spaziale inteso come collegamento stabile tra un determinato soggetto e il territorio o l’area sul quale sono destinati a prodursi gli effetti del provvedimento contestato.

In giurisprudenza, il concetto di vicinitas emerge a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 765/1967 (c.d. “Legge ponte”), il cui art. 10, comma 9, consentiva a “chiunque” di ricorrere avverso la concessione edilizia rilasciata a terzi “in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”.

Al di là del dato letterale, da cui alcuni pretendevano di far discendere una actio popularis che realmente consentisse a “chiunque” di ricorrere contro il rilascio di titoli edilizi altrui, nella prassi si è presto richiesto, ai fini della legittimazione ad agire in giudizio avverso un titolo rilasciato contra legem, che i soggetti ricorrenti fossero titolari diin un proprio interesse all’insediamento abitativo, ossia alla “radicazione in loco” dei propri “interessi di vita”, familiari, economici o relativi ad altri “qualificati e consolidati rapporti sociali” (Consiglio di Stato, sez. V, n. 523/1970, secondo un orientamento poi consolidatosi con l’Adunanza Plenaria n. 23/1977).

Si affermava in tal modo il concetto di vicinitas quale criterio di differenziazione atto a legittimare l’impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo non coinvolto nel procedimento amministrativo né menzionato nel provvedimento finale ampliativo della sfera di altri soggetti privati. Un criterio elastico, la cui concreta individuazione era ed è tuttora rimessa al prudente apprezzamento giurisprudenziale, da misurarsi sulla base della specifica situazione di fatto, del tipo di provvedimento contesto e dell’ampiezza e rilevanza delle aree coinvolte.

I principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria

Con Ordinanza 27 luglio 2021, n. 759, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia ha deferito all’Adunanza Plenaria alcune questioni inerenti l’idoneità della vicinitas a fondare l’azione amministrativa di annullamento[1], in particolare in tema di violazione di distanze legali tra immobili confinanti.

Come preliminarmente chiarito dall’Adunanza Plenaria, una volta accertata la pacifica idoneità di detto criterio a fondare una posizione giuridica qualificata e differenziata in astratto configurabile come interesse legittimo (Consiglio di Stato, sez. V, 16 giugno 2021 n. 4650), la questione si pone avuto essenziale riguardo all’interesse a ricorrere.

Secondo la ricostruzione offerta dal Giudice remittente, il quadro giurisprudenziale di riferimento in tema vede contrapporsi due orientamenti:

    • l’orientamento maggioritario che riconosce la vicinitas quale criterio idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi, assorbendo il profilo dell’interesse a ricorrere;

    • l’orientamento minoritario, ma diffuso, per il quale la vicinitas di per se sola non è sufficiente a fondare anche l’interesse al ricorso, dovendo a tal fine il ricorrente fornire anche la prova concreta del pregiudizio sofferto.

Al primo orientamento risulta peraltro aver aderito la Corte di Cassazione, che riconosce nella vicinitas la potenzialità di radicare insieme la legittimazione attiva e l’interesse a ricorrere avverso la realizzazione di un’opera, senza che occorra la prova puntuale della concreta pericolosità della stessa, né ricercare un soggetto collettivo che assuma la titolarità della corrispondente situazione giuridica, non potendosi pretendere la dimostrazione di un sicuro pregiudizio all’ambiente o alla salute ai fini della legittimazione e dell’interesse a ricorrere (Corte di Cassazione, Sez. Unite, Ordinanze 30 giugno 2021 n. 18493 e 27 agosto 2019 n. 21740).

Nel dirimere il contrasto, l’Adunanza Plenaria riconduce il concetto di vicinitas entro gli schemi generali ricavabili dal c.p.a..

Riaffermata dunque la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione e l’interesse a ricorrere quali condizioni dell’agire amministrativo, il Collegio chiarisce che anche in materia urbanistico-edilizia il ragionamento intorno all’interesse si lega all’utilità ricavabile dalla tutela di annullamento e, pertanto, all’utilità ricavabile dall’effetto demolitorio-ripristinatorio.

La predetta utilità si pone a sua volta quale specchio del pregiudizio sofferto, generalmente identificato in giurisprudenza, a fronte di un intervento edilizio contra legem, con il possibile deprezzamento dell’immobile, confinante o comunque contiguo, ovvero con la compromissione dei beni della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata.

Ne discende che l’interesse ad agire dovrebbe, ad esempio, escludersi nelle ipotesi di impugnazione di titoli edilizi affetti da vizi meramente formali o procedurali, sicuramente emendabili, quand’anche ne fosse possibile l’annullamento o, ancora più in radice, laddove al rilascio illegittimo del titolo edilizio non fosse poi seguita alcuna attività e nel frattempo fosse maturato il termine di decadenza del titolo stesso.

Quindi, l’Adunanza Plenaria afferma in via di principio la necessaria sussistenza della legittimazione ad agire e dell’interesse a ricorrere intese quali condizioni distinte ed autonome dell’azione processuale amministrativa, dovendosi per contro escludere che la vicinitas, quale elemento di differenziazione, valga da sola ed in automatico a soddisfare anche il requisito dell’interesse.

Proprio ai fini dell’interesse, inoltre, l’Adunanza precisa come lo specifico pregiudizio derivante dall’intervento edilizio che si assume illegittimo possa ricavarsi anche in termini di mera prospettazione dall’insieme delle allegazioni contenute nel ricorso, in ogni caso suscettibili di ulteriore precisazione allorché la mancata sussistenza dell’interesse stesso fosse oggetto di censura dalle controparti ovvero rilevato d’ufficio dal Giudice ex art. 73, comma 3, c.p.a..

Enunciati i predetti principi generali, l’Adunanza Plenaria delimita il campo di applicazione della vicinitas in tema di mancato rispetto delle distanze legali tra immobili confinanti, oggetto della fattispecie concreta sottesa alla pronuncia in esame: a tal proposito, il Collegio chiarisce che non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante con quello del ricorrente ma anche quella tra detto immobile ed una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse al ricorso nella misura in cui da tale violazione possa discendere, con l’annullamento del titolo edilizio, un effetto ripristinatorio concretamente utile per il ricorrente e non meramente emulativo.

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Come noto, secondo l’impostazione già propria del processo civile, l’azione amministrativa si fonda sulle due distinte condizioni della legittimazione ad agire e dell’interesse a ricorrere: la prima si identifica con la titolarità di una posizione giuridica qualificata e qualificante, mentre il secondo con la prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente, oltre che con l’effettiva utilità che lo stesso potrebbe ricavare dall’accoglimento della domanda giudiziale.

SUPERBONUS 110% Le novità del Decreto Antifrode

Ad un anno dall’entrata in vigore del Decreto Rilancio (D.L. 34/2020), il beneficio fiscale del Superbonus 110% (consistente nell’incremento al 110% dell’aliquota di detrazione delle spese sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021[1]. per gli interventi di installazione di impianti fotovoltaici, realizzazione di punti di ricarica per veicoli elettrici e riduzione del rischio sismico) ha conosciuto numerose modifiche[2].: da ultimo, il D.L. n. 157 in data 11.11.2021 (pubblicato in G.U. n. 269 del 11.11.2021 e in vigore dal 12.11.2021), conosciuto anche come Decreto Antifrode, ha introdotto misure urgenti per il contrasto alle frodi ed ha rafforzato i controlli preventivi per l’accesso a tale agevolazione.

Infatti, le operazioni fraudolente commesse nell’ambito del Superbonus 110% ammontano ad un valore di circa 800 milioni di Euro in crediti inesistenti, generati grazie ai meccanismi di cessione del credito o di sconto in fattura previsti in alternativa all’utilizzo diretto della detrazione, secondo la disciplina degli artt. 121 e 122 del D.L. 34/2020.

In particolare, come noto, tali disposizioni prevedono che i contribuenti che intendono beneficiare del Superbonus 110%, anziché usufruire della detrazione delle spese nell’arco dei 5 anni successivi all’esecuzione degli interventi, possono optare per la cessione del credito di imposta in cambio di un rimborso immediato di importo massimo corrispondente alla misura del credito, oppure per uno sconto, che può ammontare fino al costo complessivo dei lavori, ad opera della ditta esecutrice, la quale si fa carico della cifra detraibile in luogo del committente e può a sua volta cedere il proprio credito a banche o altri istituti finanziari.

I rischi del Superbonus 110%

Sebbene si tratti di una misura finalizzata alla ripartenza economica del Paese, la disciplina del Superbonus 110% è esposta a numerose insidie, tra cui:

1. la possibilità che il contribuente, per accedere al beneficio, si affidi ad imprese che realizzano interventi a prezzi eccessivamente gonfiati: in tal modo, l’operatore cui sarà ceduto il credito otterrà un ricavo maggiore (o un maggiore credito di imposta). Tuttavia, “in caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistente in misura superiore a quella spettante[3]. per lavori effettivamente realizzati, il contribuente incorre in una sanzione pari al 30% del credito utilizzato (consistente, quindi, in una perdita parziale del beneficio);

2. l’applicazione di una sanzione compresa tra il 100% ed il 200% del credito inesistente utilizzato[4]. (ossia, un credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo), cui si aggiungono la restituzione del capitale e gli interessi, in caso di lavori mai terminati o mai realizzati;

3.  la commissione dei delitti di dichiarazione fraudolenta[5] (per il contribuente che, consapevole dell’illecito, abbia indicato le fatture nella propria dichiarazione), di indebita compensazione[6] (per l’impresa esecutrice che, per effetto della compensazione derivante dal credito ceduto dal beneficiario, paga un importo inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto versare).
La peculiarità di questi reati tributari è che, sebbene siano accomunati ai delitti di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ai sensi dell’art. 316-ter c.p. e di truffa aggravata per conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’art. 640-bis c.p[7]. per la sussistenza di condotte fraudolente, si distinguono da questi ultimi per non essere reati d’evento bensì di pura condotta, ove la soglia di punibilità è anticipata alla presentazione della dichiarazione mendace, pur circoscritta dal dolo specifico dell’ottenimento del beneficio dell’evasione delle imposte.

Le modifiche del D.L. n. 157/2021 ed il ruolo dell’Agenzia delle Entrate

Il nuovo Decreto Antifrode ha esteso i poteri di controllo dell’Agenzia delle Entrate per prevenire possibili operazioni fraudolente da parte di imprese esecutrici o beneficiari dell’agevolazione.

In particolare, il D.L. 157/2021 ha introdotto l’art. 122-bis all’interno del D.L. 34/2020, che prevede: “L’Agenzia delle entrate, entro cinque giorni lavorativi dall’invio della comunicazione dell’avvenuta cessione del credito, può sospendere, per un periodo non superiore a trenta giorni, gli effetti delle comunicazioni delle cessioni, anche successive alla prima, e delle opzioni inviate alla stessa Agenzia ai sensi degli articoli 121 e 122 che presentano profili di rischio, ai fini del relativo controllo preventivo”.

I profili di rischio individuati dal Decreto attengono:

  • alla coerenza ed alla regolarità dei dati indicati nelle comunicazioni e nelle opzioni inviate all’Agenzia delle Entrate con i dati presenti nell’Anagrafe tributaria o comunque in possesso dell’Amministrazione finanziaria;
  • ai dati afferenti ai crediti oggetto di cessione ed ai soggetti che intervengono nelle operazioni relative a tali crediti, sulla base delle informazioni presenti nell’Anagrafe tributaria o in possesso dell’Amministrazione finanziaria;
  • ad analoghe cessioni effettuate in precedenza dai soggetti indicati nelle comunicazioni e nelle opzioni di cui al comma 1 dell’art. 122-bis.

Il comma 2 di tale articolo prevede che se al termine del controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate tali rischi risultano confermati, l’esito della verifica viene comunicato al soggetto che ha trasmesso la comunicazione, la quale sarà pertanto considerata come “non effettuata”. Nel caso in cui, invece, i rischi di cui al comma 1 non risultano confermati o il termine di sospensione decorre senza comunicazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate, la comunicazione inviata dal beneficiario o dal cessionario produce gli effetti previsti dalle disposizioni di riferimento.

Inoltre, fermi restando gli ordinari poteri di controllo, l’Amministrazione Finanziaria procede, in ogni caso e nei termini di legge, al controllo di tutti i crediti relativi alle cessioni per le quali la comunicazione si considera come “non effettuata”.

In relazione alle agevolazioni di cui al D.L. 34/2020 (cioè, utilizzo diretto della detrazione o del credito di imposta o sconto in fattura), l’Agenzia delle Entrate esercita i poteri di cui agli artt. 31 e segg. del D.P.R. n. 600/1973 e 51 e segg. del D.P.R. n. 633/1972 previsti in materia di imposte dirette e di IVA.

Conclusioni

I dati relativi ai crediti inesistenti generati tramite il Superbonus 110% hanno reso necessaria ed improrogabile l’adozione di misure urgenti di contrasto alle frodi, la cui efficacia verrà presto verificata.

Tuttavia, il Decreto ha destato (in particolare, tra i professionisti del settore) alcune perplessità in merito a possibili paralisi dei lavori per effetto dell’intervento dell’Agenzia delle Entrate, che produrrebbero gravi conseguenze per lavoratori e contribuenti  beneficiari del bonus.

Occorrerà dunque attendere la conversione del Decreto per poter vedere eventuali modifiche alle disposizioni introdotte lo scorso novembre e, forse, una cristallizzazione definitiva della disciplina.

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Termine prorogato con la Legge di bilancio 2021 al 30 giugno 2022, al 31 dicembre 2022 o al 30 giugno 2023 in base alla tipologia di interventi.

[2]Sull’argomento, si veda anche l’articolo “CILA Superbonus: la “CILAS”. Le ulteriori semplificazioni introdotte dal D.L. 77/2021 (Decreto Semplificazioni bis)” pubblicato nella pagina NEWS del sito dello Studio.

[3]art. 13, comma 4, D.Lgs. n. 471/1997.

[4]art. 13, comma 5, D.lgs. n. 471/1997.

[5]art. 3 D.Lgs. n. 74/2000.

[6]art. 10-quater D.lgs. n. 74/2000.

[7]la cui differenza rispetto al reato ex art. 316-ter c.p. risiede nella presenza dell’elemento dell’induzione in errore della Pubblica Amministrazione.

CILA Superbonus: la “CILAS” Le ulteriori semplificazioni introdotte dal D.L. 77/2021 (Decreto Semplificazioni bis)

La conversione in Legge del D.L. 77/2021 (il cd Decreto Semplificazioni-bis, convertito in L. n. 108 in data 29.07.2021) rappresenta l’ultima novità nel percorso di modificazione delle detrazioni fiscali per gli interventi di cui all’art. 119 del D.L. 34/2020 (c.d. Decreto Rilancio).

Dalla sua adozione, infatti, l’art. 119 del Decreto Rilancio, che ha introdotto il Superbonus (ossia un’agevolazione fiscale che stabilisce una detrazione pari al 110% per la realizzazione di interventi di efficientamento energetico, installazione di impianti fotovoltaici o di colonnine di ricarica per veicoli elettrici), ha subito numerose trasformazioni, tra cui l’estensione dell’ambito di applicazione della disposizione agli interventi sulle parti comuni degli edifici plurifamiliari quand’anche siano presenti degli abusi edilizi nelle parti private (D.L. 104/2020, convertito in L. 126/2020) e la proroga del beneficio fino al 30.06.2022, approvata con il D.L. 59/2021.

L’espansione della “CILAS” e le semplificazioni in tema di varianti e di attestazioni di legittimità e di agibilità

Rispetto alle precedenti modifiche, gli aggiustamenti apportati dal testo legislativo da ultimo adottato sono più consistenti e finalizzati a rendere l’accesso al Superbonus ancora più agevole.

1- Ampliamento del concetto di manutenzione straordinaria.

 Il previgente comma 13-ter dell’art. 119 D.L. 34/2020 è stato modificato nel senso di prevedere che le opere ivi contemplate si qualificano come interventi di manutenzione straordinaria, realizzabili mediante CILA quand’anche riguardino parti strutturali o prospetti degli edifici, ad esclusione dei soli interventi che comportano la demolizione e la ricostruzione degli immobili.

Si tratta di un’innovazione interessante, poiché potrebbe portare ad uniformare a livello nazionale l’operato degli sportelli unici per l’edilizia in relazione agli interventi sui prospetti: infatti, il governo del territorio costituisce materia di legislazione concorrente ai sensi dell’art. 117 Cost. e, per effetto della normazione specifica di ciascuna Regione, gli indirizzi dettati a livello statale vengono recepiti in modo differente dagli enti locali o anche solo dai tecnici comunali istruttori delle pratiche (ad esempio, l’intervento sulla facciata di un edificio potrebbe costituire attività di edilizia libera, o essere soggetto a CILA, SCIA o Permesso di costruire, a seconda della tipologia dei lavori o della qualificazione attribuita dal privato o dal tecnico comunale).

Con la novella, il legislatore ha espressamente ammesso la CILA per tutti interventi contemplati dal Superbonus, ad esclusione delle sole opere implicanti la demolizione e la ricostruzione degli edifici, sciogliendo ogni incertezza in merito all’individuazione del titolo abilitativo più conforme all’intervento da realizzare.

2 – Beneficio fiscale ed edilizia libera.

Per l’ottenimento del beneficio fiscale anche le opere di manutenzione ordinaria e di edilizia libera di cui all’art. 6 D.P.R. 380/2001, che normalmente non necessitano di alcun adempimento burocratico, devono essere oggetto di CILA (tali interventi non necessitano di rappresentazione grafica, ma di sola descrizione).

3 – Varianti in corso d’opera.

Altra importante novità introdotta dal D.L. 77/2021 è la possibilità di apportare delle varianti in corso d’opera alle CILA già depositate, che possono essere comunicate al termine dei lavori, pur costituendo parte integrante della comunicazione originaria: attualmente è possibile per i soli interventi ammessi dal Superbonus, ma non si esclude che tale disciplina possa essere estesa a tutti gli interventi di cui all’art. 6-bis D.P.R. 380/2001 (ossia, le opere soggette a CILA), con conseguente notevole snellimento degli adempimenti burocratici.

4 – Niente segnalazione certificata.

Il nuovo comma 13-quinquies dell’art. 119 D.L. 34/2020 (introdotto con il D.L. 77/2021) dispone che al termine dei lavori che beneficiano del Superbonus non è necessaria la segnalazione certificata di cui all’art. 24 D.P.R. 380/2001 (tramite segnalazione certificata, infatti, deve essere normalmente  attestata la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico e conformità dell’opera al progetto presentato), in quanto gli interventi contemplati dal Superbonus, in virtù della loro specifica finalità, conferiscono necessariamente agli edifici le caratteristiche di sicurezza, igiene ed efficienza energetica dell’intervento.

5 – Niente attestazione di conformità.

Infine, ed è la novità più attesa, l’art. 33, comma 1, lett. c, D.L. 77/2021 (che modifica il comma 13-ter dell’art. 119 D.L. 34/2020) prevede che la presentazione della CILA per gli interventi sopra descritti non deve più ricomprendere l’attestazione di legittimità dell’immobile ex art. 9-bis, comma 1-bis, D.P.R. 380/2001. Tale obbligo resta impregiudicato, naturalmente, per gli interventi che comportano la demolizione e la ricostruzione degli edifici.

Infatti, il nuovo art. 119, comma 13-ter, D.L. 34/2020 dispone che nella CILA Superbonus sono attestati solo “gli estremi del titolo abilitativo che ha previsto la costruzione dell’immobile oggetto d’intervento o del provvedimento che ne ha consentito la  legittimazione ovvero è attestato che la costruzione è stata completata in data  antecedente al 1° settembre  1967”.

Dunque, il tecnico istruttore della pratica edilizia non è più tenuto a verificare la condizione di legittimità “sostanziale” dell’immobile rispetto a quanto stabilito nel titolo abilitativo che ne ha consentito o legittimato la costruzione. Di conseguenza, gli eventuali abusi presenti non ostano alla realizzazione degli interventi ammessi dal Superbonus mediante CILAS. Naturalmente, sono esclusi da questa agevolazione gli immobili totalmente abusivi realizzati dopo il 1° settembre 1967, posto che in tale circostanza sarebbe comunque impossibile per il tecnico compiere le sopracitate attestazioni di cui all’art. 119, comma 13-ter, D.L. 34/2020.

Decadenza dal beneficio fiscale

Di seguito le ipotesi di decadenza dal Superbonus, determinate coerentemente con quanto disposto dall’art. 49 D.P.R. 380/2001.

Infatti, il comma 13-ter dell’art. 119 D.L. 34/2020 elenca tassativamente le quattro ipotesi di decadenza dal beneficio, che sono:

  1. la mancata presentazione della CILA;
  2. la difformità tra gli interventi descritti nella CILA e quelli realizzati;
  3. la mancata attestazione degli estremi del titolo abilitativo che ha consentito la costruzione o la legittimazione dell’immobile o che ne certifica il completamento in data antecedente il 01.09.1967;
  4. la non corrispondenza al vero delle attestazioni rese dai tecnici abilitati, ai sensi dell’art. 119, comma 14, D.L. 34/2020 (che prevede l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie per ciascuna attestazione o asseverazione infedele resa, salvo che il fatto non costituisca reato).

Il successivo comma 13-quater precisa che: “Fermo restando quanto previsto al comma 13-ter, resta impregiudicata ogni valutazione circa la legittimità dellimmobile oggetto di intervento”.

Con questo inciso, il legislatore ha inteso specificare che gli eventuali abusi presenti sull’edificio interessato dall’intervento non pregiudicano i richiedenti dall’accesso al Superbonus, ma li espone a tutte le altre conseguenze previste dalla legge. Inoltre, il comma 13-quater esclude qualsivoglia responsabilità in capo al tecnico abilitato che ha presentato la CILA, il quale, come precisato sopra, è solo tenuto ad effettuare un’attestazione “formale” limitata agli estremi del titolo abilitativo di prima costruzione o di regolarizzazione dell’immobile e non anche a verificare in maniera “sostanziale” l’effettivo stato legittimo del medesimo immobile.

Conclusioni

In un’ottica di accelerazione della ripresa del Paese dall’emergenza pandemica e, più in generale, di snellimento delle procedure in seno alla P.A., le novelle introdotte con il D.L. 77/2021 (convertito in L. n. 108/2021) appaiono idonee ad agevolare il funzionamento delle strutture amministrative ed a facilitare la realizzazione di interventi innovativi sotto il profilo energetico ed ecologico. Sebbene la nuova Legge sia di recentissima adozione, è già possibile riscontrare un tasso di efficacia piuttosto elevato ed un considerevole incremento delle richieste per l’accesso al Superbonus, segnali di accoglimento positivo del beneficio fiscale da parte del pubblico e – perché no – di una maggiore attenzione verso un uso oculato ed efficiente delle risorse energetiche.

Studio Legale DAL PIAZ

Pertinenze e distanze legali

Configurabilità dell’obbligo di osservare la disciplina in materia di distanze

  1. La “pertinenza”

Per analizzare compiutamente la questione, occorre delineare brevemente la nozione di “pertinenza”.

L’articolo 817 c.c. definisce le pertinenze come “cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”. La norma descrive, dunque, una fattispecie nella quale sussistono un oggetto principale ed un oggetto servente, o complementare rispetto al primo, collegati da un vincolo di funzionalità o di mera accessorietà.

In ambito civilistico, la destinazione della “res” a servizio o ad ornamento di un altro bene è attribuita dal proprietario o, comunque, da chi ne ha la disponibilità. In altri termini, deve sussistere, in capo al titolare del bene, l’effettiva volontà di asservire il medesimo ad un altro bene qualificato come principale[1].

Accanto alla definizione del Codice Civile, esiste una nozione urbanistico-edilizia di pertinenza, che presenta delle caratteristiche più specifiche e contempla un numero inferiore di casi.

In particolare, una recente pronuncia del Consiglio di Stato elenca gli elementi costitutivi delle pertinenze, che sono l’esiguità quantitativa (intesa come inidoneità ad alterare in modo rilevante l’assetto del territorio) e l’esaurimento della loro finalità nel rapporto con il bene principale (cioè, le pertinenze devono essere preordinate alla soddisfazione di una specifica esigenza del bene principale e devono porsi al servizio di quest’ultimo in maniera funzionale ed oggettiva)[2]. Le pertinenze sono altresì connotate dall’assenza di un autonomo valore di mercato, proprio in forza dell’impossibilità di conferire alle medesime una destinazione diversa da quella di asservimento rispetto ai beni cui accedono.

Per distinguere le pertinenze “civilistiche” da quelle “urbanistico-edilizie”, è possibile formulare il seguente esempio, tratto da una recente sentenza del TAR per la Campania[3]: una piscina interrata costituisce certamente una pertinenza ai sensi dell’articolo 817 c.c. ma non una pertinenza in termini urbanistico-edilizi per due ordini di ragioni: in primo luogo, un manufatto di tal sorta incide invasivamente sul sito di ubicazione, provocando una notevole alterazione del terreno circostante; in secondo luogo, l’uso di una piscina non è finalizzato alla fruizione dell’abitazione cui accede, ma costituisce un elemento ulteriore ed accessorio rispetto alla medesima: è dotata, cioè, di un’autonomia funzionale rispetto al bene principale.

 

  1. Rispetto delle distanze legali

Illustrato sinteticamente il quadro nozionistico delle pertinenze, occorre precisare le circostanze nelle quali trova applicazione la normativa in materia di distanze.

In particolare, si distinguono pertinenze che costituiscono nuove costruzioni e che, quindi, necessitano di un titolo edilizio (quali, ad esempio, box auto, piscine interrate, capanni per attrezzi fissati al suolo, ecc.) e pertinenze che non sono nuove costruzioni (come gazebo, piscine smontabili, tettoie con mera finalità di arredo o capanni amovibili).

La qualità di nuova costruzione si rivela dirimente per configurare l’applicabilità o meno della disciplina in materia di distanze.

Per “nuove costruzioni” si intendono i manufatti recanti le caratteristiche di cui all’articolo 3, comma I, lettera e) del D.P.R. 380/2001 o, secondo un consolidato dettato giurisprudenziale, “qualsiasi opera non completamente interrata avente i requisiti della solidità, della immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una preesistente fabbrica[4].

Per i manufatti ascrivibili all’articolo 3, comma I, lettera e) del D.P.R. 380/2001 (siano queste edifici principali o pertinenze) è prevista una vasta disciplina in materia di distanze legali, che spazia dalle previsioni codicistiche di cui agli articoli 873 c.c. e segg. alle numerose disposizioni contenute nelle leggi speciali e nelle normative urbanistiche locali.

Ad esempio, per le nuove costruzioni è prescritta l’osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. 1444/1968 e della fascia di rispetto stradale di cui al D.Lgs. 285/1992 (“Nuovo Codice della Strada”), poiché sottese, rispettivamente, a prevenire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario ed a garantire la sicurezza del traffico dei veicoli.

Tali disposizioni, in quanto preordinate alla tutela di interessi generali, hanno carattere imperativo ed inderogabile[5].

Tuttavia, nel rapporto tra l’edificio principale e la pertinenza non è prescritto il rispetto delle distanze legali poichè, nell’ambito dell’esercizio del diritto di proprietà, il privato gode della facoltà di collocare il bene pertinenziale nella posizione ritenuta più confacente, purché ciò non comporti una violazione delle norme sulle distanze dai confini, dagli altri fabbricati, dalle fasce di rispetto o di qualsivoglia altra distanza posta a tutela di interessi generali.

Tale regola è ovviamente riferibile alle sole pertinenze che costituiscono nuove costruzioni ai sensi dell’articolo 3, comma I, lettera e), D.P.R. 380/2001, in quanto il carattere permanente – anche potenziale – di tali manufatti potrebbe ostacolare la tutela delle esigenze collettive che fondano la normativa sulle distanze.

Peraltro, la giurisprudenza amministrativa, evidenziando che “la normativa dettata in materia di distanze legali è diretta ad evitare la formazione di strette e dannose intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e luminosità”, ha sancito l’inapplicabilità della normativa inerente alla distanza tra costruzioni ad un manufatto completamente interrato quale una piscina (TAR Lombardia, 20.12.1988, n. 428; Cass. Civ. Sez. II, Sent., 06.05.2014, n. 9679).

Invece le pertinenze che non costituiscono nuove costruzioni non sono soggette al rispetto della disciplina in materia di distanze.

Al riguardo, occorre puntualizzare che tale deroga trova applicazione per i soli manufatti precari di cui all’articolo 6, lett. e-bis, del D.P.R. 380/2001, ossia per “le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori allamministrazione comunale”.

Le opere contemplate dalla precitata disposizione non sono assoggettate al rispetto delle distanze legali perché non ostano alla tutela degli interessi collettivi posti a fondamento della relativa disciplina. Infatti, in caso di conflitto tra l’installazione di un manufatto precario ed un’esigenza di carattere pubblico (ad esempio, la creazione di una corsia stradale provvisoria per l’esecuzione di lavori), sarà sufficiente rimuovere o spostare il manufatto interessato.

Pertanto, le opere che non devono rispettare le distanze devono essere inidonee ad incidere sul tessuto urbanistico e deputate a soddisfare esigenze meramente contingenti, a nulla rilevando le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati per la loro installazione o l’agevole amovibilità delle medesime; in altri termini, deve trattarsi di manufatti destinati ad un uso precario e limitato nel tempo, tale da essere eliminato alla cessazione della necessità[6] od all’insorgenza di un interesse pubblico prevalente sull’esigenza privata di collocare il manufatto in una determinata posizione.

Da ultimo, nella Sentenza n. 109/2021 il TAR Molise[7], richiamando una giurisprudenza uniforme, conferma che l’osservanza delle distanze legali è prevista per i soli manufatti caratterizzati da “solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo” e, dunque, preordinati a soddisfare esigenze permanenti.

Per concludere, il rapporto tra le opere pertinenziali ed il regime delle distanze trova diversa regolamentazione a seconda che l’opera interessata consista in una nuova costruzione o meno. In base alle esigenze collettive in gioco, la normativa nazionale e locale di dettaglio determina le distanze più confacenti al bilanciamento tra l’imprescindibile salvaguardia di interessi generali, quali la pubblica sicurezza o la pubblica igiene, ovvero il rispetto di fasce stradali, e la necessità di eseguire specifiche attività edilizie sulla proprietà privata.

Studio Legale DAL PIAZ

[1] Cass. civ., Sez. VI-2, Ord. 17.10.2017, n. 24432, che richiama, ex multis: Cass., Sez. II, 20.01.2015, n. 869 e Cass., Sez. II, 10.06.2011, n. 12855.

[2] Cons. Stato, Sez. II, 5.06.2019, n. 3807.

[3] TAR Campania, Sez. III, 09.09.2020, n. 3730.

[4] Cass. Civ., Sez. II, Ord. 23.05.2019, n. 14092.

[5] TAR Campania, Sez. II, 11.03.2021, n. 1624.

[6] Cass. Sez. III Pen., 30.05.2019, n. 24149.

[7] TAR Molise, Sez. I, 22.03.2021, n. 109.

La fiscalizzazione dell’abuso edilizio

L’art. 34, comma 2, D.P.R. 380/2001

LA DISCIPLINA

L’istituto della fiscalizzazione dell’abuso edilizio è disciplinato dall’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, rubricato “Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”, che così dispone:
“1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso.
“2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all’articolo 23, comma 1, (n.d.r. si tratta degli interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività in alternativa al permesso di costruire) eseguiti in parziale difformità dalla segnalazione di inizio attività.”
La norma disciplina il regime sanzionatorio delle opere e degli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire.
Le fattispecie interessate riguardano gli interventi costruttivi realizzati secondo modalità diverse da quelle consacrate a livello progettuale (ad esempio immobili che presentano un aumento della superficie o dei volumi rispetto al progetto assentito dal titolo edilizio rilasciato), per cui tali interventi risultano abusivi e dovrebbero essere rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’illecito entro il termine congruo fissato dall’ordinanza comunale di demolizione.
Tuttavia, se la demolizione delle parti abusive non potesse aver luogo senza recare un pregiudizio statico-edilizio per la parte dell’edificio conforme, l’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede la facoltà di avvalersi della cosiddetta fiscalizzazione dell’illecito edilizio che consiste in una sanzione pecuniaria alternativa rispetto a quella demolitivo-restitutoria, in presenza di determinati requisiti:
• un’opera che presenta una parziale difformità rispetto al permesso di costruire rilasciato;
• preventiva emanazione dell’ordine di demolizione;
istanza di fiscalizzazione presentata da parte del destinatario dell’ordine;
impossibilità materiale di demolire la parte abusiva e, quindi, di ripristinare lo stato dei luoghi, che si configura solo quando la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso legittimamente realizzato.
In particolare, in tali casi, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione della porzione dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, calcolato in base alla Legge 27 luglio 1978 n. 392, qualora si tratti di edificio ad uso residenziale, oppure pari al doppio del valore venale della parte dell’opera eseguita in difformità dal permesso di costruire, in base alla stima effettuata dell’Agenzia del Territorio, qualora si tratti di opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
La fiscalizzazione, configurandosi quale sanzione pecuniaria, costituisce, pertanto, una deroga alla regola generale della demolizione negli illeciti edilizi che può trovare applicazione unicamente, qualora, in caso di interventi eseguiti in parziale difformità, sia oggettivamente impossibile effettuare la demolizione delle parti difformi senza incidere sulla stabilità dell’intero edificio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 novembre 2018 n. 6658).

Ambito di applicazione:
le ipotesi di difformità parziale dal permesso di costruire.

Il presupposto fondamentale per l’emanazione del provvedimento di fiscalizzazione è costituito dall’avvenuta realizzazione di opere in parziale difformità dal permesso di costruire come rilasciato.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la nozione di “opera eseguita in parziale difformità” individua una categoria residuale e presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio, sia stato realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale; inoltre: “In base alla norma, infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera” (cfr. Consiglio di Stato n. 1484 del 2017).
A titolo esemplificativo, nel concetto di difformità parziale sono stati fatti rientrare gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza, le variazioni relative a parti accessorie che non abbiano specifica rilevanza, nonché i modesti aumenti di altezza di piano rispetto alla consistenza dell’edificio originariamente progettato e la diversa conformazione delle tramezzature interne (cfr. T.A.R. Campania-Napoli n. 2931/2017; T.A.R. Campania-Salerno n. 784/2017).
Inoltre, l’art. 34-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, introdotto recentemente con la Legge 11 settembre 2020 n. 120 (di conversione del c.d. Decreto Semplificazioni), ha precisato la soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio: “1. Il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo.”
Si tratta di scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio; oltre questa soglia si ha abuso edilizio.

Il procedimento sanzionatorio:
l’ordinanza di demolizione e la sanzione pecuniaria

Sotto il profilo procedimentale, una volta constatato l’abuso edilizio il Comune emana l’ordinanza di demolizione con cui dispone che gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire siano rimossi o demoliti, a cura e spese del responsabile dell’abuso, entro il termine congruo fissato nella medesima ordinanza
Il destinatario dell’ordine, conseguentemente, può valutare se demolire le opere risultate abusive e, laddove ritenga di non demolire tali opere, può segnalare al Comune, ai sensi dell’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, che la demolizione d’ufficio comporterebbe il pregiudizio della staticità dell’intero edificio e, dunque, chiedere che sia irrogata la sanzione pecuniaria pari al doppio con i parametri ivi individuati.
Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, esaminata la domanda, respinge l’istanza qualora non risultino sussistenti i due presupposti previsti dalla Legge (cioè la parziale difformità di quanto realizzato rispetto ai titoli conseguiti, e il pregiudizio per la staticità, di cui al comma 2 dell’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001), mentre accoglie l’istanza e dispone il pagamento della sanzione pecuniaria qualora motivatamente risulti, sulla base di accertamenti obiettivi, che sussiste la parziale difformità e che la demolizione degli abusi pregiudichi la staticità strutturale dell’intero edificio (cfr. T.A.R. Campania-Salerno, Sez. II, n. 119 del 15.01.2021; Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.10.2020 n. 6492; T.A.R. Campania-Napoli, Sez. VI, 03.04.2020 n.1318).
Spetta quindi al privato interessato dedurre lo stato di pericolo per la stabilità dell’edificio sulla base di un motivato accertamento tecnico.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa chiarisce: «Il privato sanzionato con l’ordine di demolizione per la costruzione di un’opera edilizia abusiva non può invocare l’applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull’utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che l’applicazione della sanzione pecuniaria è innescata da un’istanza presentata a tal fine dall’interessato e non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte privata, autrice dell’opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 15 gennaio 2015 n. 233)” (cfr. T.A.R. Lazio-Latina, Sez. I, 14 febbraio 2017 n. 95).

GLI EFFETTI DELLA FISCALIZZAZIONE

In dottrina non è sussistita, in origine, unanimità di vedute relativamente agli effetti prodotti dalla fiscalizzazione dell’opera abusiva mediante il pagamento della sanzione.
Secondo un orientamento, infatti, l’applicazione della sanzione pecuniaria al posto della misura reale demolitoria comporta un duplice effetto:
a) la sanatoria urbanistico-edilizia dell’opera che viene così legalizzata;
b) la sanatoria igienico-sanitaria dell’abuso (1).
Secondo un diverso orientamento, molto più corretto, pur a seguito dell’irrogazione della sanzione pecuniaria le opere restano in ogni caso abusive, posto che è illogica l’attribuzione di effetto sanante ad una sanzione e non ad un provvedimento abilitativo, sia pure successivo (2).
La giurisprudenza amministrativa aderisce a quest’ultimo orientamento dottrinale: in particolare, si afferma che il pagamento della sanzione pecuniaria impedisce che le opere abusive possano essere demolite ma non ne rimuove il carattere antigiuridico, sicché l’edificio permane in una condizione di illiceità che, seppur “urbanisticamente tollerata”, non può dirsi equivalente allo status posseduto da un immobile oggetto di sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29 settembre 2011 n. 5412; Consiglio di Stato, sez. V, 30 ottobre 1995 n. 1520; T.A.R. Valle D’Aosta, 13 marzo 2013 n. 12; T.A.R. Piemonte, 27 settembre 2012 n. 1005): “la riconosciuta possibilità di procedere alla c.d. ‘fiscalizzazione’ consegue, per espressa previsione di legge, alla circostanza per cui “la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”, senza che tale riconoscimento comporti una sorta di sanatoria ex post degli interventi abusivi ovvero un accertamento di conformità assimilabile a quello previsto dal successivo articolo 36 del medesimo d.P.R. 380 del 2001” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2016 n. 352).
Anche la giurisprudenza penale condivide questo indirizzo, laddove si afferma che “il provvedimento adottato dall’autorità amministrativa a norma dell’art. 34, comma 2, citato trova applicazione solo per le difformità parziali e, in ogni caso, non equivale ad una sanatoria, atteso che non integra una regolarizzazione dell’illecito e, in particolare, non autorizza il completamento delle opere, considerato che le stesse vengono tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione della conservazione di quelle realizzate legittimamente (così, Cass. pen., Sez. III, n. 19538 del 22 aprile 2010, Alborino, Rv. 247187. Conf. Cass. pen., Sez. III, n. 24661 del 15 aprile 2009, Ostuni, Rv. 244021; Cass. pen., Sez. III, n. 13978 del 25 febbraio 2004, Tessitore, Rv. 228451)” (Cass. Pen., Sez. III, 21 giugno 2018 n. 28747).

CONCLUSIONI

Il perdurante carattere abusivo dell’opera, nonostante il pagamento della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. 380/2001, determina significative conseguenze circa l’uso ed il trasferimento dell’immobile fiscalizzato ad un soggetto terzo.
Il pagamento della sanzione pecuniaria non consente di rimuovere l’abuso edilizio, lasciando immutata la valenza antigiuridica del manufatto realizzato, permanendo lo status di res illegittima. Pertanto, si configura una categoria di beni che, pur urbanisticamente tollerati, non sono ammessi ad una legittimazione successiva e rispetto ai quali il legislatore mantiene il contrasto formale e sostanziale con la normativa urbanistica.
La fiscalizzazione, infatti, permane una sanzione e non produce effetti sananti sull’abuso.
Dunque, la fiscalizzazione dell’opera abusiva non autorizza il completamento o l’uso della medesima opera; a procedura completata, in caso di nuovi e successivi lavori di completamento inerenti le parti abusive dell’immobile, oggetto di fiscalizzazione, nonché in caso di utilizzo a qualunque fine di dette parti abusive, il privato sarà nuovamente passibile delle sanzioni amministrative di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001.

(1) FALCONE, Sanzioni amministrative, in Falcone – Mele, Urbanistica e appalti nella giurisprudenza, Milano, 2000, 828; MENGOLI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2003, 1121.

(2) [1] ASSINI – MARINARI, Concessione edilizia ed abusi, Padova, 1987, 113; TORREGRESSA – SANDULLI – BELLOMIA, Sanzioni urbanistiche e recupero degli insediamenti e delle opere abusive, Milano, 1985, 88.

DECRETO SEMPLIFICAZIONI N. 76/2020 E LEGGE DI CONVERSIONE N. 120/2020 LE NOVITÀ IN MATERIA DI EDILIZIA

DECRETO SEMPLIFICAZIONI N. 76/2020

E LEGGE DI CONVERSIONE N. 120/2020

 LE NOVITÀ IN MATERIA DI EDILIZIA

 

Il D.L. “Semplificazioni”, convertito con Legge n. 120/2020, all’art. 10, prevede una serie di disposizioni volte a semplificare i procedimenti in materia di edilizia ed urbanistica[1].

Di seguito le principali novità in materia edilizia.

 

  1. La ristrutturazione edilizia

 

Come noto, l’art. 3, comma 1, lett. d), T.U. Edilizia prevedeva tre distinte ipotesi di ristrutturazione edilizia, generalmente definita come trasformazione di organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente:

1) ripristino o sostituzione di alcune parti dell’edificio, con eliminazione, modificazione ed inserimento di nuovi elementi e di impianti senza demolizione del fabbricato preesistente (ristrutturazione c.d. “conservativa”);

2) demolizione e ricostruzione dell’edificio, con mantenimento della stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica;

3) ripristino di edificio parzialmente od integralmente crollato o demolito, con ricostruzione previo accertamento della preesistente consistenza (ristrutturazione c.d. “ricostruttiva”).

In materia, la giurisprudenza amministrativa è giunta a sancire la possibilità di effettuare interventi di demolizione e ricostruzione anche con diversi sagoma, prospetti, e sedime del fabbricato interessato.

Ex multiis, il Consiglio di Stato, Sez. IV, con Sentenza n. 4728/2017, dopo un’analitica ricostruzione dell’evoluzione legislativa della nozione di ristrutturazione urbanistica, ha statuito infatti che “[…] con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite […] previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, salve “innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d. lgs. n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”. Tanto precisato in ordine alla definizione di “ristrutturazione edilizia”, occorre osservare che il nuovo manufatto, se può sottrarsi ai limiti, precedentemente previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma, non di meno anche in tali casi è certamente tenuto al rispetto del limite delle distanze dal confine e/o da altri fabbricati, nel rispetto sia delle norme del codice civile sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica”.

Anche la Corte Costituzionale, nella Sentenza n. 70/2020, si è recentemente pronunciata in materia, sancendo l’incostituzionalità dell’art. 2 della L.R. Puglia n. 59/2018 (norma di interpretazione autentica dell’art. 4, comma 1, L.R. Puglia n. 14 del 2009, relativa agli incrementi volumetrici consentiti in caso di demolizione e ricostruzione di edifici preesistenti) ai sensi del quale la ristrutturazione edilizia veniva prevista anche in caso di intervento di demolizione e ricostruzione di un edificio con diversa sistemazione plano-volumetrica e aumento della volumetria preesistente, in applicazione delle norme di cui al Piano Casa regionale.

In particolare, la Corte Costituzionale, a sostegno dell’irragionevolezza della portata innovativa di tale disposizione, aveva stabilito che: “[…] Al momento dell’adozione del “piano casa” da parte delle Regioni […] la normativa statale richiedeva, per la ristrutturazione ricostruttiva, il solo rispetto della volumetria e della sagoma, non l’identità di sedime, limiti da rispettare affinché la ristrutturazione non si traducesse in una nuova costruzione, diversamente regolata dalla legislazione nazionale di settore. Alla luce di tali premesse, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della L.R. Puglia n. 59 del 2018 sono fondate per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost., in relazione agli artt. 36 e 37 del t.u. edilizia e all’art. 5, comma 10, del D.L. n. 70 del 2011 (cosiddetto “decreto sviluppo”)”.

Pertanto, il mantenimento della stessa volumetria a seguito di un intervento di demolizione e ricostruzione è sempre stato considerato il principale elemento distintivo tra la ristrutturazione edilizia e l’intervento di nuova costruzione.

Ora, l’art. 10, comma 1, lett. b), n. 2, D.L. “Semplificazioni”, convertito con Legge n. 120/2020, introduce, diversamente dalle sopracitate ipotesi 2) e 3) (di ristrutturazione c.d. “ricostruttiva”), la possibilità di realizzare interventi di demolizione e ricostruzione anche con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche – secondo un principio già riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa menzionata – e, nei casi previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, gli incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana.

Trattasi di una novità importante in quanto, come detto, la differenza tra le nozioni di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia, per quanto concerne gli interventi di demolizione e ricostruzione, è sempre stato l’incremento volumetrico, che non doveva essere presente in qualsivoglia ipotesi di ristrutturazione edilizia.

Inoltre, l’art. 10, comma 1, lett. e), D.L. “Semplificazioni”, innovando l’art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia, prevede che gli interventi di ristrutturazione edilizia siano sottoposti a permesso di costruire nel caso in cui “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”. Nella versione precedente, l’art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia prevedeva che il permesso di costruire per interventi di ristrutturazione edilizia dovesse essere richiesto solo in presenza di modifiche ai prospetti.

*

Per l’effetto, risultano incentivati gli interventi di riqualificazione degli edifici esistenti anche mediante la loro completa demolizione e ricostruzione.

Peraltro, lo stesso comma 1-ter dell’art. 2 bis citato stabilisce un limite per gli edifici siti nei centri storici o “in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, prevedendo che in tali ipotesi gli interventi di demolizione e ricostruzione possano essere realizzati esclusivamente nell’ambito di piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale”, fatte salve “le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela”.

Detto limite risulta assai rilevante, posto che gli interventi di demolizione e ricostruzione degli immobili siti nei centri storici, o di rilevante pregio, possono essere qualificati come interventi di ristrutturazione edilizia, anziché di nuova costruzione, solo se:

– eseguiti con mantenimento di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e senza incremento di volumetria;

– realizzati mediante esecuzione di apposita pianificazione urbanistica, e non mediante titolo edilizio semplice. ​

Il limite in questione è condivisibile e può trovare spiegazione nelle esigenze di tutela dei centri storici nei quali un “indiscriminato” incremento volumetrico comporti una “snaturazione” della consistenza degli immobili e dei quartieri di antica edificazione.

Risulta quindi corretto che, in ipotesi di realizzazione di tali interventi nei centri storici o in ambiti di pregio, al fine di evitare la realizzazione di ulteriori “obbrobri” edilizi (già molto diffusi nel Paese e di cui non si sente affatto la mancanza), gli interventi in esame vengano attuati sotto l’attento controllo dei competenti uffici delle amministrazioni comunali.

 

  1. Deroghe ai limiti di distanza tra fabbricati

 

Il nuovo comma 1-ter dell’art. 2-bis del T.U. Edilizia, così come modificato dall’art. 10, comma 1, lett. a) del D.L. “Semplificazioni”, introduce un’importante deroga alla regolamentazione delle distanze tra fabbricati e dal confine.

La norma, nella versione previgente, consentiva l’esecuzione di tutti gli interventi di demolizione e ricostruzione – anche per ristrutturazione edilizia – nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti, purché venisse conservata la coincidenza dell’area di sedime, del volume e dell’altezza massima dell’edificio ricostruito rispetto a quello demolito.

La nuova formulazione del comma 1-ter prevede invece che, “anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini”, la demolizione e ricostruzione possa eseguirsi nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti anche in caso di incremento volumetrico derivante da applicazione di incentivi, che possono comportare sia “ampliamenti fuori sagoma” sia “il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito”.

 

  1. La manutenzione straordinaria

 

Il nuovo art. 3, comma 1, lett. b) del T.U.E., come modificato dall’art. 10, comma 1, lett. b), n. 1, D.L. “Semplificazioni”, amplia l’ambito di applicazione delle manutenzioni straordinarie, ovvero delle opere e degli interventi necessari per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, “sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici.

A differenza della previgente formulazione, ora integra manutenzione straordinaria anche l’intervento che contempla una modificazione delle destinazioni d’uso, purché “non comporti mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico.

Pertanto, un intervento di manutenzione straordinaria può ora comportare anche la modificazione della destinazione d’uso di un edificio, a condizione che quest’ultima non sia “rilevante” dal punto di vista urbanistico, ossia non integri un incremento di carico urbanistico.

Anche il concetto di destinazione d’uso di un immobile viene ampliato rispetto al testo normativo previgente (art. 23 ter, comma 2, T.U. Edilizia, ai sensi del quale, “La destinazione d’uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile), in quanto il D.L. “Semplificazioni” – all’art. 10, comma 1, lett. m) – stabilisce che ora la destinazione d’uso si può desumere da molteplice documentazione, inerente il “[…] titolo abilitativo che ha previsto la costruzione [dell’immobile] o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali”[2].

In tal modo, il legislatore consente di individuare la destinazione d’uso di un immobile facendo riferimento non solo al corrente utilizzo prevalente, in termini di superficie utile, ma anche alla destinazione prevista nel titolo abilitativo a seguito del quale l’immobile è stato edificato, come integrata dai successivi titoli edilizi legittimanti ulteriori interventi sullo stesso immobile.

Inoltre, rientrano nel concetto di manutenzione straordinaria anche le modifiche ai prospetti degli edifici legittimamente realizzati necessarie per mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio ovvero per l’accesso allo stesso, che non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio, purché l’intervento risulti conforme alla vigente disciplina urbanistica ed edilizia e non abbia ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al D.Lgs. n. 42/2004.

Studio Legale DAL PIAZ

[1] Art. 10, comma 1, del D.L. “Semplificazioni”: “Al fine di semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo, al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, sono apportate le seguenti modificazioni […]”.

[2] Art. 9 bis, comma 1 bis, T.U. Edilizia, introdotto dall’art. 10, comma 1, lettera d), Legge n. 120 del 2020.

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