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USUCAPIBILITA’ DEL BENE OGGETTO DI DECRETO DI ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’ <br>Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 651 del 12.01.2023

Con la Sentenza n. 651 del 12.01.2023 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione risolvono la questione riguardante gli effetti del decreto di espropriazione cui non segua l’effettiva immissione in possesso da parte della Pubblica Amministrazione o, comunque, una condotta realizzativa delle opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità.

In particolare, la giurisprudenza si interroga se sia automatica la perdita dell’animus possidendi in capo all’occupante con conseguente interruzione di un pregresso possesso utile ad usucapionem. ovvero se il possesso continui a sussistere in capo allo stesso, che potrà riacquistare la proprietà del bene per usucapione ancorché oggetto di espropriazione.

Sul punto, infatti, esisteva un marcato contrasto giurisprudenziale esaminato nell’articolo del 25.10.2022 (https://bit.ly/3IXkNRK), cui si rimanda, che ha giustificato la rimessione della questione al Primo Presidente della Suprema Corte (C. Cass., Sez. II, Ordinanza interlocutoria n. 19758/2022)[1].

  1. La decisione della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte, a Sezioni Unite, condivide l’orientamento giurisprudenziale contrario alla usucapibilità del bene a favore del proprietario espropriato che rimane nella disponibilità del bene stesso, il quale quindi può vantare una mera detenzione precaria non utile ad usucapionem.

Tale soluzione è applicabile, secondo il Collegio, sia alle controversie soggette al regime previgente all’entrata in vigore del Testo Unico degli espropri, disciplinate dalla L. n. 2359/1985 (a), sia alle controversie soggette alle disposizioni del predetto Testo Unico (D.Lgs. n. 327/2001 entrato in vigore il 30 giugno 2003) (b).

a) Decreto di esproprio per pubblica utilità emesso in data antecedente al 30 giugno 2003.

All’emissione del decreto di esproprio per pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza (e, quindi, non in presenza di una mera occupazione d’urgenza del bene da parte della Pubblica Amministrazione, prima o in mancanza di un provvedimento espropriativo) consegue l’automatica appartenenza del bene oggetto dell’atto amministrativo al patrimonio indisponibile, “prima e indipendentemente dalla realizzazione dell’opera” cui il decreto è preordinato.

Tale effetto è confermato dalle numerose disposizioni legislative citate nella Sentenza in commento: “si vedano gli artt. 42-bis, comma 1, del t.u. del 2001, costituente un “procedimento espropriativo semplificato”; della L. 22 ottobre 1971,n.865art.21, comma 2, e 35, comma 3, modificativa della L. 18 aprile 1962 n. 167, in tema di edilizia residenziale pubblica, applicabile anche agli edifici scolastici e alle aree verdi, e le numerose leggi regionali che prevedono l’acquisizione degli immobili espropriati al patrimonio indisponibile del Comune”.

Al proprietario espropriato, a fronte della totale inerzia della Pubblica Amministrazione protratta nel tempo e del venir meno della dichiarazione di pubblica utilità, è tutt’al più riconosciuto il diritto alla retrocessione disciplinato nel Capo VII della Legge n. 2359/1985, che gli consente di riacquistare sia la proprietà sia il possesso del bene tramite sentenza costitutiva e previo pagamento del relativo prezzo.

Pertanto, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “nelle controversie soggette al regime normativo antecedente all’entrata in vigore del t.u. n. 327 del 2001, nelle quali la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta prima del 30 giugno 2003, nel caso in cui al decreto di esproprio validamente emesso (come è incontestato nella specie) – che è idoneo a far acquisire al beneficiario dell’espropriazione la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di fatto e di diritto con essa incompatibile – non sia seguita l’immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva del decreto comportano la perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto sul bene – se egli continui ad occuparlo – si configura come una mera detenzione, con la conseguenza che la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile a suo favore “ad usucapionem”, necessita di un atto di interversiopossessionis da esercitare in partecipata contrapposizione al nuovo proprietario, dal quale sia consentito desumere che egli abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Resta fermo il diritto dell’espropriato di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene”.

b) Decreto di esproprio per pubblica utilità emesso in data posteriore al 30 giugno 2003.

La Suprema Corte esclude altresì l’usucapibilità del bene espropriato mediante decreto soggetto ratione temporis al Testo Unico degli espropri non seguito da alcun atto dell’espropriante di materiale apprensione, ma per ragioni parzialmente differenti rispetto a quelle appena enunciate.

Infatti, ai sensi dell’art. 24, comma 1, del citato Testo Unico, l’immissione in possesso del beneficiario dell’espropriazione – mediante redazione del prescritto verbale – deve avvenire nel termine perentorio di due anni dall’emissione del decreto di esproprio.

In caso contrario, “il decreto di esproprio […] diventa inefficace e la proprietà del bene si riespande immediatamente in capo al proprietario, perdendo rilevanza la questione dell’usucapione, salvo il potere dell’autorità espropriante di emanare una nuova dichiarazione di pubblica utilità entro i successivi tre anni (art. 24, comma 7), nel qual caso dovrà essere emesso un nuovo decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1”.

Quindi, anche in questo caso, se il decreto di esproprio è tempestivamente eseguito, l’occupazione del bene da parte del precedente proprietario realizza una situazione di mero fatto non configurabile come possesso utile ai fini dell’usucapione.

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Orientamento giurisprudenziale che riconosce il possesso in capo all’occupante: “in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutumpossessorium, poiché – con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità – il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell’espropriato/possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l’espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell’animus rem sibihabendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell’usucapione (a ciò non ostando, tra l’altro, il disposto della L. n. 2359 del 1865, artt. 52 e 63 ) tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti né l’immissione in possesso, né l’attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell’espropriante, del tutto irrilevante appalesan-dosi, ai fini de quibus, l’acquisita consapevolezza dell’esistenza dell’altrui diritto dominicale” (testualmente, C. Cass., Sez. I, Sentenza n. 5293/2000; ex multis: C. Cass., Sentenze nn. 5996/2014, 25594/2013, n. 13558/1999 e, implicitamente, n. 3836/1983.
Orientamento giurisprudenziale che non riconosce il possesso in capo all’occupante: “il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di diritto o di fatto con essa in-compatibile e, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continuino ad esercitare sulla cosa un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica (o conoscenza) del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è neces-sario un atto di interversiopossessionis [ex art. 1141 c.c.]” (testualmente, C. Cass., Sez. I, Sentenza n. 6742 del 2014; ex multis: C. Cass., Sentenze nn. 13669/2007, 12023/2004, 23850/2018, 6966/1988)

LA RESPONSABILITA’ PER DANNO AMBIENTALE <br> Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza in data 01.02.2023 n. 3077

Con la sentenza n. 3077 del 01.02.2023, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione si sono pronunciate su una questione di estremo interesse e attualità, attinente alla tematica della responsabilità per danno ambientale.

Nel caso in esame, la Società ricorrente aveva costruito nel 2001, con gestione fino al 2003, una discarica per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani (RSU) presso una cava, utilizzata come sito di stoccaggio dei rifiuti raccolti. A seguito di accertamenti condotti da ARPA per l’ispezione dello stato della falda acquifera, era emerso il superamento dei valori-limite di plurime sostanze contaminanti (con superamento delle CSC: concentrazioni soglia di contaminazione) ed alte concentrazioni nocive. Conseguentemente, il Ministero dell’Ambiente aveva ingiunto alla Società l’attivazione di interventi di messa in sicurezza d’emergenza (m.i.s.e.) delle falde acquifere contaminate, unitamente all’adozione di misure di prevenzione e di bonifica dei suoli e della falda, a pena di interventi sostitutivi ex D.Lgs. 152/2006(Codice dell’Ambiente), con iscrizione di onere reale sull’immobile ed accertamento di danno ambientale.

Tali provvedimenti erano stati impugnati dalla Società ricorrente (prima avanti al TAR e, successivamente innanzi al TSAP: Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche), contestando la violazione di plurime disposizioni del D.Lgs. 152/2006 e, soprattutto, censurando l’estraneità del titolo ad ottemperare (posto che la Società non si riteneva responsabile del danno ambientale) nonché l’omessa dovuta identificazione del responsabile della contaminazione e l’estraneità ad ogni responsabilità, dovendo gli eventi ricondursi a fenomeni d’inquinamento non repentini ma diffusi in zona.

Il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, pur condividendo le conclusioni cui era giunto il Giudice Amministrativo circa il difetto di dimostrazione che il processo d’inquinamento dei terreni fosse iniziato con l’insediamento in loco della Società, concludeva che l’onere di adottare le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.) gravasse anche sul proprietario o sul detentore qualificato di un sito, nel contesto di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, prescindendo dall’accertamento del dolo o della colpa. Al riguardo veniva, in particolare, valorizzata la portata del principio “chi inquina paga” del diritto UE, in base al quale è sufficiente la materiale causazione del danno o del pericolo ambientale secondo il criterio di responsabilità oggettiva (pur se non di posizione).

Avverso la predetta sentenza la Società proponeva ricorso in Cassazione. La questione devoluta all’esame delle Sezioni Unite involge “la contestazione nella vicenda del principio ‘chi inquina paga’ di cui alla Direttiva 2004/35/CE e comunque di ogni responsabilità ambientale, anche a titolo oggettivo o prescindendo da una condotta causativa del danno, in capo al proprietario/gestore richiesto di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza, in difetto della individuazione del responsabile della potenziale contaminazione”.

IL PRINCIPIO “CHI INQUINA PAGA”

Con i primi due motivi di ricorso, ritenuti fondati dalla Suprema Corte, la Società ricorrente contestava l’applicazione alla vicenda del principio “chi inquina paga” (in base al quale sul proprietario/gestore grava comunque ogni responsabilità di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza: m.i.s.e.) e l’erronea mancata individuazione del responsabile della potenziale contaminazione.

Decisiva, secondo il Collegio, è risultata la constatazione secondo cui, nel caso in esame, risultava pacifico che in capo alla Società non fosse intervenuta la dimostrazione, ad opera delle competenti Amministrazioni, di alcuna correlazione causale tra l’attività svolta in situ e, per via di percolazione dei rifiuti trattati, la contaminazione del sottosuolo e della falda acquifera.

A partire da tale accertamento, la Suprema Corte rileva, pertanto, che il titolo che ha giustificato per il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche la legittimità delle prescrizioni adottate dalla P.A., “pur nel formale distanziamento dalla responsabilità da posizione”, è consistito in una peculiare relazione della Società ricorrente con il sito (la proprietà o la detenzione qualificata) secondo il criterio di responsabilità oggettiva ritenuto conforme alla Direttiva 2004/35/CE[1].

In maniera incisiva, le Sezioni Unite contestano tale conclusione, ritenuta non condivisibile avendo riguardo alle acquisizioni prodotte dal dialogo tra giurisprudenza nazionale, amministrativa ed europea in relazione al principio “chi inquina paga”.

Fondamentale nell’impianto motivazionale della pronuncia in esame risulta, invero, l’analisi della disciplina multilivello in tema di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, all’interno della quale si colloca il principio “chi inquina paga” (artt. 1 e 7 Allegato II della Direttiva 2004/35/CE ed art. 191 TFUE).

In base a tale principio “l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale” (considerato 2 della Direttiva 2004/35/CE).

La ratio del principio “chi inquina paga”, come rilevato nell’analisi economica di tale sistema, viene dunque individuata nel fatto che  “imporre al soggetto inquinatore l’obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l’abbia evitato o rimosso, significa pertanto addossare (…) le esternalità negative (conseguenti alla produzione o al commercio di beni e servizi) a carico del soggetto cui sia riferibile l’attività, evitando alterazioni di mercato (per qualità dei prodotti e livelli di concorrenza), senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall’ente pubblico; viene così scongiurato ogni scenario di alternativa monetizzazione dell’inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘chi inquina paga’ nella riparazione più diretta del danno ambientale (nei contesti di acque, terreno e biodiversità, i soli dell’art.2 Direttiva), ad opera dell’autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell’ente pubblico” (par. 12 della sentenza n. 3077 del 01.02.2023).

Se, dunque, appare chiara la definizione e la portata del principio in esame, molto più controverso appare il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, essendo in dubbio se occorra valorizzare un modello di responsabilità di tipo oggettivo (quantunque la più efficace a tutela dell’ambiente) o se, diversamente, debba prevalere un criterio di imputazione psicologico della relativa condotta. Obiettivo dell’indagine condotta nella sentenza in commento è, dunque, comprendere se l’interpretazione dell’intero assetto normativo italiano, conseguente alla progressiva armonizzazione con la Direttiva 2004/35/CE, sia di per sé idonea a giustificare una responsabilità oggettiva del proprietario in quanto tale.

Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, dalla lettura sistematica e integrata delle disposizioni del D.Lgs. 152/2006 (Codice dell’Ambiente) e della Direttiva Europea 2004/35/CE non è possibile rinvenire alcun obbligo diretto ed esplicito del proprietario, ove non sia autore della condotta contaminante, ad adottare interventi di messa in sicurezza di emergenza. Particolarmente rilevante, a questo proposito, deve ritenersi il disposto di cui all’art. 311 del D.Lgs. 152/2006, che fissa la responsabilità oggettiva di chi gestisce specifiche attività professionali elencate e quella soggettiva (per dolo o colpa) in capo “a chiunque altro cagioni un danno ambientale”. Inoltre, al ricorrere di specifici presupposti, l’art. 308 esclude, a carico dello stesso operatore esercente un’attività professionale di rilevanza ambientale, i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e di ripristino qualora esso dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo o nelle ipotesi di cd. inquinamento diffuso.

L’azione di risarcimento del danno ambientale, inteso come bene pubblico di carattere unitario, costituente autonomo diritto fondamentale di rilievo costituzionale, oggetto di tutela da parte del Giudice Ordinario, diviene così un’azione di reintegrazione in forma specifica, di competenza esclusiva del Ministero dell’Ambiente.

Da un’attenta analisi del quadro normativo e della giurisprudenza europea e nazionale, la Suprema Corte giunge dunque alla conclusione secondo cui “va esclusa una indicazione comunitaria alla riparazione del danno (…) a carico di chi non abbia svolto l’attività professionale di operatore, bensì venga chiamato a rispondervi nella veste di titolare di diritti dominicali o addirittura, come nel caso, con nesso eziologico escluso dallo stesso giudice dell’accertata condotta, non potendo la mera enunciazione di indizi di posizione, per un’attività non classificata dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 a rischio d’inquinamento, sostituire di per sé la prova del predetto necessario nesso causale” (par. 16 della Sentenza).

RIPARTIZIONE DI RESPONSABILITA’ TRA RESPONSABILE DELL’INQUINAMENTO E PROPRIETARIO INCOLPEVOLE DEL SITO

All’interno dell’analisi, in chiave sistematica, della responsabilità per danno ambientale offerta dalle Sezioni Unite, centrale rilevanza assume la distinzione tra i doveri incombenti sul proprietario incolpevole dell’inquinamento ed il responsabile dell’inquinamento.

Gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto previsto dall’art. 253 del Codice dell’Ambiente in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari. Il proprietario, in tale quadro, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione idonee a contrastare un evento che abbia creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile, secondo il canone causale civilistico, di verificazione di un danno sanitario o ambientale, al fine di impedire o minimizzare tale minaccia. In tale logica, “le norme contemplanti il proprietario (artt. 245 e 244 cod. amb.) dovrebbero essere rilette come un coinvolgimento per un verso doveroso (….) per l’attuazione, senza distinzione, di tutte le misure di prevenzione (…) e, per altro verso, pienamente partecipativo dell’iter procedimentale preventivo” (par. 25 della sentenza).

Dalla figura del proprietario incolpevole deve essere tenuta nettamente distinta la figura del “ben diverso” responsabile dell’inquinamento, obbligato in modo più stringente e sempre, ai sensi dell’art. 242 del D.Lgs. 152/2006, già nelle prime 24 ore, ad adottare le  misure necessarie di prevenzione, le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.)[2] e di bonifica del sito inquinato. L’Amministrazione, dunque, non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di realizzare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati alle previsioni di cui all’art. 253, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare, oltre che all’adozione delle sole necessarie misure di prevenzione (par. 32 della sentenza).

Infine, anche alla luce della novellazione degli artt. 9 e 41 della Cost. attuata con la Legge 11 febbraio 2022 n. 1, viene considerato non irragionevole il sistema distributivo della responsabilità ambientale tuttora vigente, imperniato proprio sul perseguimento della riparazione e fino alla estrema attuazione dell’intervento pubblico sostitutivo rispetto all’inerzia o alla non individuazione del responsabile.

Sotto il profilo civilistico, l’inapplicabilità degli artt. 2050 c.c. “Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose” e 2051 c.c. “Danno cagionato da cose in custodia” discende direttamente dalla natura interamente speciale propria del Codice dell’Ambiente; a seguito dell’introduzione della Direttiva 2004/35/CE, come chiarito dalle Sezioni Unite, si è di fronte ad un corpo normativo appositamente dedicato alla tutela dell’illecito ecologico slegato dal sistema regolativo dell’illecito civile ordinario di cui agli artt. 2043 e ss. c.c..

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La sentenza in esame può ritenersi certamente apprezzabile nella misura in cui, valorizzando una lettura sistematica ed integrata della normativa europea e nazionale, nonché gli apporti della giurisprudenza civile, amministrativa ed europea, afferma che il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, secondo il principio “chi inquina paga”, non può prescindere dall’accertamento del nesso causale tra l’attività posta in essere dall’operatore e l’inquinamento, nonché dall’accertamento del necessario elemento psicologico (colpa o dolo del responsabile dell’inquinamento).

In questa logica, sicuramente condivisibile appare la constatazione secondo cui un quadro altrimenti vago circa l’accertamento di quali siano gli obblighi di bonifica stabiliti per legge o per ordine dei Giudici e delle Amministrazioni costituisce circostanza ostativa ad un corretto funzionamento circolare del sistema delle tutele ambientali (cfr. par. 37 della sentenza).

Al tempo stesso, dal punto di vista operativo, sembra possibile intravedere qualche margine di incertezza in tutti quei casi (pur presi espressamente in considerazione dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento) in cui non sia possibile identificare con precisione il responsabile dell’inquinamento risultando, al contrario, difficile ricostruire la catena causale fra danni e attività di plurimi operatori che si sono succeduti nella gestione di uno stesso sito. Seguendo la soluzione adottata dalle Sezioni Unite, sussiste il rischio che talvolta siano le sole Amministrazioni a dover far fronte ai costi, anche ingenti, del risanamento ambientale.

Ciononostante, la sentenza in esame costituisce un intervento di estremo interesse per la portata sistematica delle sue acquisizioni, condotte alla luce di una disamina integrata della normativa e della giurisprudenza europea e nazionale (civile e amministrativa) in tema di responsabilità per danno ambientale.

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale
[2]Nella Sentenza viene evidenziata la distinzione tra misure di prevenzione, definite come “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” e le misure di sicurezza di emergenza, che includono “ogni intervento immediato o a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lettera t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente”.

L’ESCLUSIONE DELLA VALUTAZIONE AMBIENTALE STRATEGICA (V.A.S.) NELLE IPOTESI DI LOCALIZZAZIONE DI SINGOLE OPERE

Riconosciuta la correttezza dell’operato di un’Amministrazione comunale, assistita dallo Studio Legale DAL PIAZ, che ha escluso l’assoggettamento a V.A.S. di una Variante semplificata adottata per la realizzazione di un’opera già prevista dal vigente Piano Regolatore.

TAR per il Piemonte, Sez. II, Sent. n. 269/2022

Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 10667/2022

 

Il caso

La vicenda giudiziaria trae origine dall’adozione di una Deliberazione del Consiglio Comunale con cui l’Amministrazione ha approvato il progetto di fattibilità tecnica ed economica per la realizzazione di una pista ciclabile (al servizio dell’importante Castello di Racconigi, una delle Residenza Sabaude) in attuazione di previsioni già recepite nel Piano Regolatore Generale, nonché l’adozione di una variante urbanistica “semplificata” al Piano stesso, ai soli fini dell’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio sui terreni privati interessati dall’intervento.

Avverso il suddetto provvedimento sono insorti i proprietari espropriandi i quali, tra le altre censure, hanno contestato il mancato avvio della procedura di assoggettabilità a V.A.S. della variante “semplificata”, nonché l’illegittimità della conseguente procedura espropriativa.

Lo Studio Legale DAL PIAZ, già innanzi al TAR per il Piemonte e successivamente al Consiglio di Stato, ha posto in luce, invece, la legittimità dell’operato dell’Amministrazione comunale, rilevando come per la variante in questione non fosse necessario procedere con la Valutazione Ambientale Strategica alla luce della normativa ambientale applicabile nella fattispecie.

La Valutazione Ambientale Strategica.

La V.A.S. è stata introdotta in Europa dalla Direttiva 2001/42/CE con l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e di contribuire all’integrazione di considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione e dell’adozione di piani e programmi urbanistici, al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile. In Italia la citata Direttiva è stata recepita con il Decreto Legislativo n. 152/2006 recante “Norme in materia ambientale” (c.d. Codice dell’ambiente).

Oggetto della Valutazione Ambientale Strategica sono i piani ed i programmi urbanistici che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale, nel quale sono compresi i beni paesaggistici (art. 6, comma 1, Codice ambiente), laddove l’espressione “impatto ambientale” identifica l’effetto significativo, diretto o indiretto, su alcuni fattori espressamente menzionati, ossia: popolazione umana e salute umana; biodiversità; territorio, suolo, acqua, aria e clima; patrimonio culturale e paesaggio e la loro interazione (art. 5, comma 1, Codice ambiente).

La sottoposizione di piani e programmi alla valutazione ambientale, dunque, ha l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente, integrando le previsioni pianificatorie e programmatiche con considerazioni specificatamente ambientali, idonee ad indirizzare l’Amministrazione procedente nell’effettuazione delle scelte discrezionali tipiche della programmazione urbanistica. In tal modo, la P.A. è invitata a dare prioritaria considerazione agli interessi della tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale, come del resto deve essere alla luce del c.d. principio di sviluppo sostenibile. Proprio per tale ragione, l’atto che contiene i risultati dell’esame condotto dall’autorità procedente (il rapporto ambientale) deve individuare, descrivere e valutare gli impatti significativi che l’attuazione del piano o del programma proposto potrebbe potenzialmente avere sull’ambiente e sul patrimonio culturale, nonché le alternative che possono essere adottate in considerazione degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma (art. 13, comma 4, Codice ambiente)[1].

Oltre alle ipotesi per le quali il Codice prevede espressamente l’obbligatorietà della procedura di V.A.S., vi sono casi in cui la Valutazione Ambientale, pur non obbligatoria, è resa necessaria alla luce delle risultanze di un’altra procedura denominata “verifica di assoggettabilità”, nel corso della quale l’Autorità competente è chiamata a verificare sei piani ed i programmi, che determinano l’uso di piccole aree a livello locale e le loro modifiche minori, sono in grado potenzialmente di produrre significativi effetti sull’ambiente in base a specifici criteri.

Sia nel caso in cui non sia stata effettuata la V.A.S. obbligatoria, sia nel caso in cui non sia stata esperita la verifica di assoggettabilità, i programmi ed i piani eventualmente approvati sono annullabili per violazione di legge.

Tuttavia, sussistono particolari casi in cui la Valutazione Ambientale Strategica non è necessaria: trattasi delle ipotesi in cui vengono esaminati singoli progetti già contemplati dai piani e programmi urbanistici generali: in tal caso, infatti, gli stessi progetti si ritroverebbero ad essere valutati (sotto il profilo ambientale) una prima volta nell’ambito del contesto pianificatorio generale, ed una seconda nella fase preliminare alla loro realizzazione (laddove invece va eseguita la Valutazione d’Impatto Ambientale (V.I.A.), ossia la procedura tecnico-amministrativa di verifica della compatibilità ambientale di una singola opera, o di un insieme di singole opere, anch’essa disciplinata dal D.Lgs. n. 152/2006).

Proprio per la potenziale interferenza tra i due strumenti valutativi e per evitare duplicazioni, ridondanze o incoerenze, nel caso in cui il progetto sia conforme alla localizzazione prevista dal piano che sia stato già sottoposto a V.A.S., il Codice dell’ambiente ha coordinato le due valutazioni, prevedendo in particolare che “nella redazione dello studio di impatto ambientale….possono essere utilizzate le informazioni e le analisi contenute nel rapporto ambientale” così come, nella fase di valutazione dei progetti, “debbono essere tenute in considerazione la documentazione e le conclusioni della VAS” (art. 10, Codice ambiente).

In più, a seguito dell’introduzione dell’art. 6, comma 12, D.Lgs. n. 152/2006 (ad opera del D.Lgs. n. 128/2010), il Codice prende in esame anche l’ipotesi in cui il progetto dell’opera comporti una variante localizzativa al piano, prevedendo che “ferma restando l’applicazione della disciplina in materia di VIA, la valutazione ambientale strategica non è necessaria per la localizzazione delle singole opere”: pertanto, quando la modifica (più correttamente, la variante) al piano, derivante dal singolo progetto, ha carattere meramente localizzativo, non è necessario avviare una nuova procedura di Valutazione Ambientale Strategica in quanto il principio di sviluppo sostenibile è sufficientemente garantito dalla V.I.A. afferente la singola opera.

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Nel giudizio di specie, in virtù della normativa dettata dal Codice dell’ambiente, il Consiglio di Stato, rilevando che “le questioni attinenti la localizzazione delle singole opere non costituiscono dimensione di analisi strategica propria della VAS ex art. 6, comma 12, d.lgs. 152/2016” (Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 10667/2022), ha confermato quanto evidenziato dal Collegio di primo grado, per il quale “le questioni di compatibilità ambientale sollevate dai ricorrenti a sostegno della propria censura non attengono alla dimensione “strategica” della valutazione ambientale a livello di Piano ma a profili di maggior dettaglio progettuale e localizzativo. In altri termini le questioni attinenti alla localizzazione delle singole opere non costituiscono dimensione di analisi strategica propria di una VAS” (TAR per il Piemonte, Sez. II, Sent. n. 269/2022).

Quindi. sia il TAR per il Piemonte che il Consiglio di Stato hanno riconosciuto la piena correttezza dell’operato del Comune: la variante che ha individuato e previsto nel Piano Regolatore comunale l’area sulla quale sarebbe stata realizzata la pista ciclabile era già stata sottoposta a V.A.S.; quindi la successiva variante, riguardante la realizzazione in dettaglio dell’opera e finalizzata esclusivamente all’apposizione del vincolo espropriativo, non necessitava di una nuova Valutazione Ambientale Strategica.

Studio Legale DAL PIAZ

[1] Consiglio di Stato, Sent. n. 2569/2015

USUCAPIBILITA’ DEL BENE OGGETTO DI DECRETO DI ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’: L’ORDINANZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 19758/2022

La questione giuridica

La Corte di Cassazione, con Ordinanza del 20 giugno 2022 n. 19758, ha evidenziato un marcato contrasto giurisprudenziale: per l’adozione dei provvedimenti finalizzati alla sua risoluzione la vicenda è stata oggetto di rimessione al Primo Presidente.

La questione concerne le conseguenze sussistenti nell’ipotesi in cui il proprietario di una unità immobiliare riceva la notificazione del decreto di espropriazione per pubblica utilità: in giurisprudenza si è posta la questione se sia automatica la perdita dell’animus possidendi in capo all’occupante o se il possesso continui a sussistere, con conseguente possibilità dell’acquisto della proprietà sul bene per usucapione; segnatamente, allorquando la Pubblica Amministrazione non sia immessa nel possesso si realizza automaticamente il c.d. “constitutum possessorium” in favore all’ente espropriante o il possesso permane in capo all’occupante?

Al fine di risolvere il quesito la Seconda Sezione civile della Corte di Cassazione ha rimesso la quaestio al Primo Presidente.

Infatti, in un giudizio innanzi al Tribunale di Roma, deciso con sentenza n. 5066/2011, relativo alla riunione di cause aventi ad oggetto contrapposte domande di rilascio di un’area di proprietà comunale, asseritamente detenuta da una società privata (con relativa richiesta di risarcimento del danno per ritardata consegna), la convenuta, tramite la proposizione di domanda riconvenzionale, ha chiesto la declaratoria di usucapione. Il Tribunale ha condannato la convenuta al rilascio dell’immobile, respingendo la domanda.

La Corte d’Appello, successivamente, ha respinto il ricorso promosso dalla società soccombente in primo grado, argomentando che, rispetto all’area oggetto di causa (in riferimento alla quale era stato emesso decreto di espropriazione) non potevano ritenersi sussistenti le condizioni per l’acquisto a titolo di usucapione da parte dell’occupante né per ottenere la retrocessione (a causa della posizione di mera detentrice della società appellante, non essendo stata provata alcuna antecedente attività idonea a realizzare un’interversione del possesso, ex art. 1164 c.c.).

I contrapposti orientamenti giurisprudenziali

Avverso la sentenza di appello sono stati proposti due distinti ricorsi.

La questione sollevata innanzi alla Corte di Cassazione rileva in quanto dibattuta da oltre vent’anni, con contrapposti indirizzi giurisprudenziali.

La Corte Suprema ha rilevato l’esistenza di due indirizzi interpretativi.

Per il primo orientamento, dalla notificazione o dall’avvenuta conoscenza del decreto di espropriazione (per pubblica utilità) deriva automaticamente la perdita dell’animus possidendi in capo all’occupante (ex multis Corte di Cassazione nn. 12230/2016 e 23850/2018). Pertanto, qualora il precedente proprietario continui ad esercitare sulla cosa un’attività riconducibile all’esercizio del diritto di proprietà, posto che la notificazione del decreto di espropriazione per pubblica utilità comporta la perdita dell’animus possidendi, per la configurabilità di un nuovo possesso utile “ad usucapionem” sarà necessario realizzare un atto di interversione del possesso.

Secondo tale orientamento, invero, il soggetto che si trova nella relazione diretta con il bene, nell momento in cui riceve la notificazione del decreto di espropriazione, avrebbe la consapevolezza dell’alienità del bene stesso e dell’impossibilità di farne uso come se fosse realmente proprio, pur rimanendo nella sua disponibilità materiale.

Per l’orientamento opposto (cfr. Corte di Cassazione nn. 25594/2013, 5996/2014), in caso di notificazione del decreto di espropriazione per pubblica utilità il trasferimento coattivo del bene non integra necessariamente gli estremi del “constitutum possessorium”, trasferendosi il diritto di proprietà in capo all’ente espropriante (evidentemente contro la volontà del possessore) senza che nessun accordo intervenga fra questi e lo stesso espropriante né per quanto attiene alla proprietà né per quanto attiene al possesso.

Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina un mutamento della situazione di fatto (ovverosia il detenere la res come se fosse propria). L’espropriato potrà dunque legittimamente invocare, ove ne ricorrano i presupposti, il compimento dell’usucapione.

Pertanto, se l’emissione del decreto di espropriazione non viene seguito da alcun atto di concreta ed effettiva immissione nel possesso da parte del soggetto espropriante, occorre scindere gli effetti traslativi della proprietà conseguenti all’emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità dall’acquisto del possesso del bene espropriato; conseguentemente, in presenza di una procedura di espropriazione per pubblica utilità, l’interruzione del possesso del bene espropriato potrà derivare unicamente da una situazione di fatto che ne impedisce materialmente l’esercizio.

Dunque, tra gli effetti automatici del decreto non vengono inclusi né il venir meno del possesso del bene da parte del soggetto espropriato né il mutamento in mera detenzione dell’eventuale proseguimento del godimento del bene stesso.

Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, quindi, il decreto di espropriazione, non seguito da alcun atto della Pubblica Amministrazione (soggetto espropriante) avente ad oggetto la materiale apprensione del bene che ne costituisce l’oggetto, non risulta idoneo, di per sé, a determinare l’estinzione delle situazioni di fatto in atto sul bene.

Per l’effetto, in caso di comprovato possesso che superi il periodo ventennale e che sia esercitato da un soggetto privato, secondo i requisiti di cui all’art. 1158 c.c., risulterebbe possibile l’acquisto, da parte del medesimo soggetto, del relativo diritto reale per usucapione.

La Suprema Corte, infine, ha illustrato l’orientamento della dottrina sul tema, favorevole al secondo indirizzo giurisprudenziale posto che, se a seguito dell’emanazione di un decreto di espropriazione non è stata effettuata alcuna immissione nel possesso da parte dell’ente espropriante, rimanendo quindi il bene nella disponibilità dell’occupante, la res resta nel patrimonio disponibile; quindi, l’occupante che permane nel possesso continuato ultraventennale acquisterebbe la proprietà a titolo originario in virtù dell’avvenuta usucapione.

L’Ordinanza del 20 giugno 2022 n. 19758

La Corte, per dirimere il contrasto giurisprudenziale, ha quindi stabilito che “alla stregua del complessivo e contrastante quadro giurisprudenziale il collegio ritiene che sussistano pienamente le condizioni per sottoporre la questione all’esame delle Sezioni Unite con conseguente rimessione degli atti al Primo Presidente per l’adozione dei conseguenti provvedimenti, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.”.

In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite che chiarirà definitivamente il citato contrasto, la soluzione sembrerebbe andare nella direzione del secondo orientamento illustrato, anche in virtù della posizione assunta dalla dottrina. Quindi, il decreto di espropriazione, non seguito da alcun atto dell’espropriante di materiale apprensione del bene che ne costituisce l’oggetto, non pare idoneo, di per sé, a determinare l’estinzione delle situazioni di fatto in atto sul bene e, dunque, in caso di comprovato possesso ultraventennale esercitato da un privato, secondo i requisiti ricondotti univocamente all’interpretazione dell’art. 1158 c.c., sarebbe possibile l’acquisto da parte dello stesso del corrispondente diritto reale per usucapione.

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INDENNITA’ DI ESPOPRIO E DI OCCUPAZIONE: L’AUTOMATICA RIVALUTAZIONE E’ ESCLUSA

Con Ordinanza n. 19508 dello scorso 16 giugno la Corte di Cassazione ha ribadito che il debito conseguente alla liquidazione dell’indennità di espropriazione non è suscettibile di automatica rivalutazione.

La normativa codicistica

In materia di obbligazioni pecuniarie, l’art. 1277 c.c. disciplina il c.d. “principio nominalistico”, in forza del quale “I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale”.

Dottrina e giurisprudenza ritengono che il predetto principio non trovi applicazione con riferimento a tutte le obbligazioni destinate ad essere adempiute mediante la corresponsione di una somma di denaro, bensì alle sole obbligazioni aventi fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro, ossiC le obbligazioni di valuta.

Invece, le obbligazioni di valore, aventi – originariamente – ad oggetto una prestazione diversa rispetto ad una somma di denaro, sono sottratte al principio nominalistico.

Nel tempo, la giurisprudenza[1] ha delineato i vari step volti alla liquidazione delle obbligazioni di valore e, in particolare:

  1. aestimatio: individuazione del valore del bene all’epoca in cui è sorta l’obbligazione;
  2. taxatio: successiva attualizzazione di quel valore, per renderlo coerente con il potere d’acquisto della moneta all’epoca della liquidazione (mediante l’applicazione degli indici ISTAT);
  3. interessi compensativi: eventuale liquidazione dell’ulteriore danno da ritardo.

Sempre in materia di obbligazioni pecuniarie, l’art. 1224 c.c., dedicato specificamente ai danni, dispone che: “Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, [1284 comma 3] gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura [1950].Al creditore che dimostra di [2697] aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori”.

L’espropriazione per pubblica utilità

L’art. 8 del T.U. sulle espropriazioni (D.P.R. n. 327/2001) elenca le fasi del procedimento espropriativo, con tre specifici sub-procedimenti che hanno una regolamentazione autonoma: “1. Il decreto di esproprio può essere emanato qualora: a) l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio; b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità; c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l’indennità di esproprio”.

L’indennità, che ovviamente è ricompresa tra le obbligazioni pecuniarie sopra illustrate, viene calcolata secondo parametri predeterminati dal legislatore, ancorati, per lo più, al valore venale del bene.

La giurisprudenza della Corte EDU ha fornito un’interpretazione dell’indennità di esproprio difforme rispetto alle decisioni – ormai conformi – delle Corti domestiche.

In particolare, l’art. 1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali dispone che: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni Precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

Ebbene, secondo la Corte EDU, l’indennità di esproprio di un’area per pubblica utilità, quand’anche operata in maniera legittima, è comunque oggetto di rivalutazione monetaria, non essendo sufficiente prevedere, quale importo della indennità di esproprio, il solo valore venale del bene all’epoca dell’espropriazione, oltre interessi. In difetto di rivalutazione monetaria la privazione della proprietà costituirebbe una interferenza eccessiva ed ingiustificata alla luce della citata disposizione(Chinnici c/Italia del 14.04.2015).

Sorge quindi spontaneo domandarsi come si possano raccordare le norme nazionali (e la relativa interpretazione domestica) con le disposizioni della Convenzione EDU (su cui pronunciano i giudici della Corte di Strasburgo).

La Costituzione italiana, da un lato, dispone che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101) e, dall’altro, che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato [70 e segg.] e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art. 117). In forza del combinato disposto delle citate norme, il Giudice nazionale è tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza Europea consolidatasi sulla norma conferente, fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro nell’applicazione e nell’interpretazione del sistema di norme, attribuito, in prima battuta, al Giudice comune (Corte Cost. n. 236 del 2011).In altri termini, il Giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo – esclusivamente –il “diritto consolidato” prodotto dalla giurisprudenza Europea.

Peraltro, in ragione della clausola di equivalenza sancita dall’art. 52, par. 3, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, non si è verificata una “trattatizzazione” indiretta e piena della CEDU, la quale è predicabile solo per le ipotesi nelle quali la fattispecie sia disciplinata dal diritto Europeo e non già da norme nazionali prive di legame con il diritto dell’Unione(in termini, Cass.,SS. UU., n. 9595/2012).

Ebbene, sulla scorta di tali premesse, è stata esclusa l’esistenza di un obbligo tout court del Giudice nazionale di uniformarsi alle sentenze della Corte EDU che sanciscono la necessarietà della rivalutazione monetaria.

Ad ogni modo, il diritto interno appresta, nei modi previsti dall’art. 1224, comma 2, c.c., un efficace rimedio per ovviare agli effetti negativi connessi al ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, a condizione, però, che ne sia fatta domanda.

Infatti, il privato espropriato non rimane privo di tutela: “il rimedio previsto dal diritto interno all’art. 1224 c.c., comma 2, è efficace. Lo stesso risulta infatti idoneo ad assicurare un risarcimento anche superiore […] a quello riferito agli effetti dell’inflazione, sempre che vi sia stata in giudizio la formulazione della relativa domanda, nel rilievo che il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, e non può limitarsi a chiedere semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta (Cass. SU n. 5743 del 2015)” (Cass. Civ. n. 32911/2021).

Tali principi sono stati richiamati anche nella recentissima Ordinanza dello scorso 16 giugno, con cui la Cassazione ha inteso ribadire il proprio precedente orientamento, sancendo quindi che: “In tema di indennità di espropriazione, non trova diretta applicazione l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, relativo al diritto alla percezione di una giusta indennità da parte del soggetto privato della proprietà per causa di pubblico interesse, non essendo la materia disciplinata dal diritto Europeo ma solo da quello nazionale che, peraltro, recando la possibilità della liquidazione del maggior danno da ritardo per le obbligazioni di valuta, ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, consente di soddisfare ugualmente l’esigenza di pieno ristoro del soggetto espropriato, qualora decorra un certo lasso di tempo tra l’espropriazione e la liquidazione dell’indennizzo”.

In conclusione, secondo la Suprema Corte è pacifico nel nostro ordinamento il principio secondo cui le obbligazioni di pagare l’indennità di espropriazione e di occupazione legittima costituiscono debiti di valuta, e non di valore,“sicchè, nel caso in cui, in esito ad opposizione alla stima effettuata in sede amministrativa, venga riconosciuto all’espropriato una maggiore somma a titolo di indennità espropriativa, l’espropriante deve corrispondere, solo su detta maggiore somma, gli interessi legali, di natura compensativa, dal giorno dell’espropriazione e fino alla data del deposito della somma medesima”.

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Si veda, p.e., Cass. civ., Sez. VI – 3, Ordinanzan. 15856/2019.

LA DISCIPLINA IN TEMA DI DISTANZE MINIME DELLE COSTRUZIONI DAI CONFINI Corte di Cassazione n. 9264 del 22.03.2022

Con la recentissima sentenza n. 9264 del 22 marzo 2022 la Corte di Cassazione ha enunciato alcuni principi in tema di distanze legali delle costruzioni dai confini.

La disciplina delle distanze legali in materia edilizio-urbanistica

 Il Codice civile regola la materia delle distanze tra edifici agli artt. 873, 874, 875 e 877, dettando prescrizioni che assumono un duplice rilievo:

  • nei rapporti tra privati, legittimando il vicino ad agire a titolo di risarcimento del danno e, ricorrendone i presupposti, per la demolizione di costruzioni realizzate in violazione delle previsioni di legge;
  • nei rapporti con la Pubblica Amministrazione, cui compete il rilascio dei titoli abilitativi edilizi nel rispetto della disciplina vigente anche in materia di distanze.

In particolare, ai sensi dell’art. 873 c.c., “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”.

Secondo l’orientamento consolidato, la norma civilistica, pur perseguendo prevalenti finalità igienico-sanitarie, è posta a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli privati confinanti, laddove, per contro, la regolamentazione di cui agli strumenti edilizio-urbanistici locali risponde a finalità pubblicistiche di tutela del territorio.

Ne consegue la qualificazione “da genere a specie”del rapporto intercorrente tra normativa codicistica e normativa territoriale, in quanto la prima è recessiva rispetto alla seconda allorché questa preveda diverse e più ampie distanze minime tra fabbricati.

In altri termini, per la sola ipotesi, invero non frequente, di regolamentazione locale del tutto silente sul punto, l’art. 873 c.c. riacquista forza espansiva cogente ed impone ai privati il rispetto della distanza minima di 3 mt.

La norma, nonostante il riferimento letterale al “confine” del lotto di proprietà del singolo, deve essere letta ed interpretata nel senso che la distanza di 3 mt. riguarda la costruzione eventualmente già esistente sul terreno limitrofo, e dunque rileva quale prescrizione in tema di distanze legali tra fabbricati[1]e non tra confini di terreni adiacenti.

Gli strumenti di pianificazione locale (Piani Regolatori e Regolamenti Edilizi comunali)spesso dettano prescrizioni ulteriori e diverse rispetto a quelle codicistiche non solo in materia di distanze tra edifici bensì anche in tema di distanze dal confine oppure dalla strada.

A tali previsioni territoriali è pacificamente riconosciuta natura cogente integrativa della normativa civilistica, oltre che natura inderogabile, in quanto dirette alla tutela di interessi generali pubblicistici in materia urbanistica.

La qualificazione integrativadella norma regolamentare rispetto alla disciplinadel Codice civile è essenziale in quanto permette al vicino, che si ritenga leso, di agire, ai sensi dell’art. 872 c.c., sia per il risarcimento del danno sia per la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.

Non assumono, per contro, valore integrativo, legittimando pertanto alla sola azione di risarcimento, le prescrizioni dei regolamenti locali che non tendono a soddisfare interessi generali di natura igienica, urbanistica o ambientale, quali, a mero titolo di esempio, le norme che disciplinano il rilascio di un titolo edilizio.

Il caso

 Con la sentenza n. 9264 del 22 marzo 2022 La Cassazione si è pronunciata su di una fattispecie in cui i privati proprietari di un immobile erano stati convenuti in giudizio, in primo grado, dal proprietario del fondo vicino, per sentire accertata la violazione della normativa in materia di distacchi minimi dai confini edil relativo diritto al risarcimento del danno, sull’asserito presupposto che il fabbricato di loro proprietà fosse stato realizzato a distanza inferiore di quella prevista dalle Norme di Attuazione del Piano Regolatore Generale Comunale.

Da parte loro, i resistenti sostenevano che l’immobile di loro proprietà non fosse assoggettato al rispetto di alcuna distanza minima dal confine, ricadendo lo stesso in zona qualificata come omogenea dal P.R.G.C., per la quale non erano dettate prescrizioni in tema di distacchi delle costruzioni dai confini.

La Corte d’Appello ha disatteso tali argomentazioni e, disponendo una CTU, ha altresì accertato l’incompatibilità della destinazione a civile abitazione del fabbricato con la disciplina di zona, che consentiva i soli fabbricati agricoli o assimilati. Per l’effetto, ha ritenuto applicabili alla fattispecie le prescrizioni in tema di distacchi dal confine dettate dalle locali Norme di Attuazione per i fabbricati ad uso abitativo (quale era effettivamente quello realizzato), anche se siti in zone diverse del P.R.G.C..

I privati soccombenti hanno censurato innanzi alla Suprema Corte la sentenza sul presupposto che, in assenza di previsioni di distanze minime, l’unica disciplina applicabile fosse quella di cui all’art. 873 c.c., relativa alla distanza tra fabbricati.

La Corte di Cassazione ha dunque indagato la disciplina delle distanze delle costruzioni dai confini, interrogandosi se questa debba ritenersi legata alla zona di P.R.G.C. in cui insiste la costruzione ovvero alla destinazione d’uso della medesima.

La Suprema Corte ha ritenuto di accogliere la prima tesi, affermando che la disciplina in tema di distanze di un fabbricato dal confine è necessariamente legata alle previsioni territoriali di zona, a prescindere dalla destinazione d’uso ed anche dall’eventuale difformità della stessa rispetto alle destinazioni consentite dagli strumenti urbanistici nella zona di interesse.

La tesi opposta, infatti, adottata dalla Corte Distrettuale, contrasta con il risalente orientamento giurisprudenziale che riconosce al proprietario di un suolo con capacità edificatoria la prerogativa di trovare i propri diritti ed i propri doveri conformati nella normativa applicabile alla zona in cui si sviluppa l’attività costruttiva.

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[1]Sui risvolti applicativi dell’art. 873 c.c. in tema di distanze minime tra fabbricati si vedaCass. Civ., Sezioni Unite, 19.05.2016, n. 10318, che delimita il campo di applicazione del principio di c.d. prevenzione temporale, a norma del quale chiunque dei confinanti costruisca per primo determina, in concreto, le distanze da osservare per l’edificazione sui terreni limitrofi, avendo così il diritto di scegliere in piena libertà, salvo il rispetto della normativa vigente, la migliore collocazione del proprio manufatto.

ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO SENTENZA 09.12.2021 N. 22

LA VICINITAS QUALE CRITERIO DI LEGITTIMAZIONE PER IMPUGNARE I TITOLI EDILIZI

Con la recentissima pronuncia del 9 dicembre 2021, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato fa chiarezza sull’idoneità o meno della vicinitas a fondare insieme l’interesse e la legittimazione a ricorrere in materia edilizio-urbanistica, intese quali condizioni dell’azione amministrativa di annullamento.

La vicinitas nell’evoluzione giurisprudenziale

La vicinitas è un elemento fisico-spaziale inteso come collegamento stabile tra un determinato soggetto e il territorio o l’area sul quale sono destinati a prodursi gli effetti del provvedimento contestato.

In giurisprudenza, il concetto di vicinitas emerge a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 765/1967 (c.d. “Legge ponte”), il cui art. 10, comma 9, consentiva a “chiunque” di ricorrere avverso la concessione edilizia rilasciata a terzi “in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”.

Al di là del dato letterale, da cui alcuni pretendevano di far discendere una actio popularis che realmente consentisse a “chiunque” di ricorrere contro il rilascio di titoli edilizi altrui, nella prassi si è presto richiesto, ai fini della legittimazione ad agire in giudizio avverso un titolo rilasciato contra legem, che i soggetti ricorrenti fossero titolari diin un proprio interesse all’insediamento abitativo, ossia alla “radicazione in loco” dei propri “interessi di vita”, familiari, economici o relativi ad altri “qualificati e consolidati rapporti sociali” (Consiglio di Stato, sez. V, n. 523/1970, secondo un orientamento poi consolidatosi con l’Adunanza Plenaria n. 23/1977).

Si affermava in tal modo il concetto di vicinitas quale criterio di differenziazione atto a legittimare l’impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo non coinvolto nel procedimento amministrativo né menzionato nel provvedimento finale ampliativo della sfera di altri soggetti privati. Un criterio elastico, la cui concreta individuazione era ed è tuttora rimessa al prudente apprezzamento giurisprudenziale, da misurarsi sulla base della specifica situazione di fatto, del tipo di provvedimento contesto e dell’ampiezza e rilevanza delle aree coinvolte.

I principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria

Con Ordinanza 27 luglio 2021, n. 759, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia ha deferito all’Adunanza Plenaria alcune questioni inerenti l’idoneità della vicinitas a fondare l’azione amministrativa di annullamento[1], in particolare in tema di violazione di distanze legali tra immobili confinanti.

Come preliminarmente chiarito dall’Adunanza Plenaria, una volta accertata la pacifica idoneità di detto criterio a fondare una posizione giuridica qualificata e differenziata in astratto configurabile come interesse legittimo (Consiglio di Stato, sez. V, 16 giugno 2021 n. 4650), la questione si pone avuto essenziale riguardo all’interesse a ricorrere.

Secondo la ricostruzione offerta dal Giudice remittente, il quadro giurisprudenziale di riferimento in tema vede contrapporsi due orientamenti:

    • l’orientamento maggioritario che riconosce la vicinitas quale criterio idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi, assorbendo il profilo dell’interesse a ricorrere;

    • l’orientamento minoritario, ma diffuso, per il quale la vicinitas di per se sola non è sufficiente a fondare anche l’interesse al ricorso, dovendo a tal fine il ricorrente fornire anche la prova concreta del pregiudizio sofferto.

Al primo orientamento risulta peraltro aver aderito la Corte di Cassazione, che riconosce nella vicinitas la potenzialità di radicare insieme la legittimazione attiva e l’interesse a ricorrere avverso la realizzazione di un’opera, senza che occorra la prova puntuale della concreta pericolosità della stessa, né ricercare un soggetto collettivo che assuma la titolarità della corrispondente situazione giuridica, non potendosi pretendere la dimostrazione di un sicuro pregiudizio all’ambiente o alla salute ai fini della legittimazione e dell’interesse a ricorrere (Corte di Cassazione, Sez. Unite, Ordinanze 30 giugno 2021 n. 18493 e 27 agosto 2019 n. 21740).

Nel dirimere il contrasto, l’Adunanza Plenaria riconduce il concetto di vicinitas entro gli schemi generali ricavabili dal c.p.a..

Riaffermata dunque la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione e l’interesse a ricorrere quali condizioni dell’agire amministrativo, il Collegio chiarisce che anche in materia urbanistico-edilizia il ragionamento intorno all’interesse si lega all’utilità ricavabile dalla tutela di annullamento e, pertanto, all’utilità ricavabile dall’effetto demolitorio-ripristinatorio.

La predetta utilità si pone a sua volta quale specchio del pregiudizio sofferto, generalmente identificato in giurisprudenza, a fronte di un intervento edilizio contra legem, con il possibile deprezzamento dell’immobile, confinante o comunque contiguo, ovvero con la compromissione dei beni della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata.

Ne discende che l’interesse ad agire dovrebbe, ad esempio, escludersi nelle ipotesi di impugnazione di titoli edilizi affetti da vizi meramente formali o procedurali, sicuramente emendabili, quand’anche ne fosse possibile l’annullamento o, ancora più in radice, laddove al rilascio illegittimo del titolo edilizio non fosse poi seguita alcuna attività e nel frattempo fosse maturato il termine di decadenza del titolo stesso.

Quindi, l’Adunanza Plenaria afferma in via di principio la necessaria sussistenza della legittimazione ad agire e dell’interesse a ricorrere intese quali condizioni distinte ed autonome dell’azione processuale amministrativa, dovendosi per contro escludere che la vicinitas, quale elemento di differenziazione, valga da sola ed in automatico a soddisfare anche il requisito dell’interesse.

Proprio ai fini dell’interesse, inoltre, l’Adunanza precisa come lo specifico pregiudizio derivante dall’intervento edilizio che si assume illegittimo possa ricavarsi anche in termini di mera prospettazione dall’insieme delle allegazioni contenute nel ricorso, in ogni caso suscettibili di ulteriore precisazione allorché la mancata sussistenza dell’interesse stesso fosse oggetto di censura dalle controparti ovvero rilevato d’ufficio dal Giudice ex art. 73, comma 3, c.p.a..

Enunciati i predetti principi generali, l’Adunanza Plenaria delimita il campo di applicazione della vicinitas in tema di mancato rispetto delle distanze legali tra immobili confinanti, oggetto della fattispecie concreta sottesa alla pronuncia in esame: a tal proposito, il Collegio chiarisce che non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante con quello del ricorrente ma anche quella tra detto immobile ed una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse al ricorso nella misura in cui da tale violazione possa discendere, con l’annullamento del titolo edilizio, un effetto ripristinatorio concretamente utile per il ricorrente e non meramente emulativo.

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[1]Come noto, secondo l’impostazione già propria del processo civile, l’azione amministrativa si fonda sulle due distinte condizioni della legittimazione ad agire e dell’interesse a ricorrere: la prima si identifica con la titolarità di una posizione giuridica qualificata e qualificante, mentre il secondo con la prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente, oltre che con l’effettiva utilità che lo stesso potrebbe ricavare dall’accoglimento della domanda giudiziale.

SUPERBONUS 110% Le novità del Decreto Antifrode

Ad un anno dall’entrata in vigore del Decreto Rilancio (D.L. 34/2020), il beneficio fiscale del Superbonus 110% (consistente nell’incremento al 110% dell’aliquota di detrazione delle spese sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021[1]. per gli interventi di installazione di impianti fotovoltaici, realizzazione di punti di ricarica per veicoli elettrici e riduzione del rischio sismico) ha conosciuto numerose modifiche[2].: da ultimo, il D.L. n. 157 in data 11.11.2021 (pubblicato in G.U. n. 269 del 11.11.2021 e in vigore dal 12.11.2021), conosciuto anche come Decreto Antifrode, ha introdotto misure urgenti per il contrasto alle frodi ed ha rafforzato i controlli preventivi per l’accesso a tale agevolazione.

Infatti, le operazioni fraudolente commesse nell’ambito del Superbonus 110% ammontano ad un valore di circa 800 milioni di Euro in crediti inesistenti, generati grazie ai meccanismi di cessione del credito o di sconto in fattura previsti in alternativa all’utilizzo diretto della detrazione, secondo la disciplina degli artt. 121 e 122 del D.L. 34/2020.

In particolare, come noto, tali disposizioni prevedono che i contribuenti che intendono beneficiare del Superbonus 110%, anziché usufruire della detrazione delle spese nell’arco dei 5 anni successivi all’esecuzione degli interventi, possono optare per la cessione del credito di imposta in cambio di un rimborso immediato di importo massimo corrispondente alla misura del credito, oppure per uno sconto, che può ammontare fino al costo complessivo dei lavori, ad opera della ditta esecutrice, la quale si fa carico della cifra detraibile in luogo del committente e può a sua volta cedere il proprio credito a banche o altri istituti finanziari.

I rischi del Superbonus 110%

Sebbene si tratti di una misura finalizzata alla ripartenza economica del Paese, la disciplina del Superbonus 110% è esposta a numerose insidie, tra cui:

1. la possibilità che il contribuente, per accedere al beneficio, si affidi ad imprese che realizzano interventi a prezzi eccessivamente gonfiati: in tal modo, l’operatore cui sarà ceduto il credito otterrà un ricavo maggiore (o un maggiore credito di imposta). Tuttavia, “in caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistente in misura superiore a quella spettante[3]. per lavori effettivamente realizzati, il contribuente incorre in una sanzione pari al 30% del credito utilizzato (consistente, quindi, in una perdita parziale del beneficio);

2. l’applicazione di una sanzione compresa tra il 100% ed il 200% del credito inesistente utilizzato[4]. (ossia, un credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo), cui si aggiungono la restituzione del capitale e gli interessi, in caso di lavori mai terminati o mai realizzati;

3.  la commissione dei delitti di dichiarazione fraudolenta[5] (per il contribuente che, consapevole dell’illecito, abbia indicato le fatture nella propria dichiarazione), di indebita compensazione[6] (per l’impresa esecutrice che, per effetto della compensazione derivante dal credito ceduto dal beneficiario, paga un importo inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto versare).
La peculiarità di questi reati tributari è che, sebbene siano accomunati ai delitti di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ai sensi dell’art. 316-ter c.p. e di truffa aggravata per conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’art. 640-bis c.p[7]. per la sussistenza di condotte fraudolente, si distinguono da questi ultimi per non essere reati d’evento bensì di pura condotta, ove la soglia di punibilità è anticipata alla presentazione della dichiarazione mendace, pur circoscritta dal dolo specifico dell’ottenimento del beneficio dell’evasione delle imposte.

Le modifiche del D.L. n. 157/2021 ed il ruolo dell’Agenzia delle Entrate

Il nuovo Decreto Antifrode ha esteso i poteri di controllo dell’Agenzia delle Entrate per prevenire possibili operazioni fraudolente da parte di imprese esecutrici o beneficiari dell’agevolazione.

In particolare, il D.L. 157/2021 ha introdotto l’art. 122-bis all’interno del D.L. 34/2020, che prevede: “L’Agenzia delle entrate, entro cinque giorni lavorativi dall’invio della comunicazione dell’avvenuta cessione del credito, può sospendere, per un periodo non superiore a trenta giorni, gli effetti delle comunicazioni delle cessioni, anche successive alla prima, e delle opzioni inviate alla stessa Agenzia ai sensi degli articoli 121 e 122 che presentano profili di rischio, ai fini del relativo controllo preventivo”.

I profili di rischio individuati dal Decreto attengono:

  • alla coerenza ed alla regolarità dei dati indicati nelle comunicazioni e nelle opzioni inviate all’Agenzia delle Entrate con i dati presenti nell’Anagrafe tributaria o comunque in possesso dell’Amministrazione finanziaria;
  • ai dati afferenti ai crediti oggetto di cessione ed ai soggetti che intervengono nelle operazioni relative a tali crediti, sulla base delle informazioni presenti nell’Anagrafe tributaria o in possesso dell’Amministrazione finanziaria;
  • ad analoghe cessioni effettuate in precedenza dai soggetti indicati nelle comunicazioni e nelle opzioni di cui al comma 1 dell’art. 122-bis.

Il comma 2 di tale articolo prevede che se al termine del controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate tali rischi risultano confermati, l’esito della verifica viene comunicato al soggetto che ha trasmesso la comunicazione, la quale sarà pertanto considerata come “non effettuata”. Nel caso in cui, invece, i rischi di cui al comma 1 non risultano confermati o il termine di sospensione decorre senza comunicazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate, la comunicazione inviata dal beneficiario o dal cessionario produce gli effetti previsti dalle disposizioni di riferimento.

Inoltre, fermi restando gli ordinari poteri di controllo, l’Amministrazione Finanziaria procede, in ogni caso e nei termini di legge, al controllo di tutti i crediti relativi alle cessioni per le quali la comunicazione si considera come “non effettuata”.

In relazione alle agevolazioni di cui al D.L. 34/2020 (cioè, utilizzo diretto della detrazione o del credito di imposta o sconto in fattura), l’Agenzia delle Entrate esercita i poteri di cui agli artt. 31 e segg. del D.P.R. n. 600/1973 e 51 e segg. del D.P.R. n. 633/1972 previsti in materia di imposte dirette e di IVA.

Conclusioni

I dati relativi ai crediti inesistenti generati tramite il Superbonus 110% hanno reso necessaria ed improrogabile l’adozione di misure urgenti di contrasto alle frodi, la cui efficacia verrà presto verificata.

Tuttavia, il Decreto ha destato (in particolare, tra i professionisti del settore) alcune perplessità in merito a possibili paralisi dei lavori per effetto dell’intervento dell’Agenzia delle Entrate, che produrrebbero gravi conseguenze per lavoratori e contribuenti  beneficiari del bonus.

Occorrerà dunque attendere la conversione del Decreto per poter vedere eventuali modifiche alle disposizioni introdotte lo scorso novembre e, forse, una cristallizzazione definitiva della disciplina.

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[1]Termine prorogato con la Legge di bilancio 2021 al 30 giugno 2022, al 31 dicembre 2022 o al 30 giugno 2023 in base alla tipologia di interventi.

[2]Sull’argomento, si veda anche l’articolo “CILA Superbonus: la “CILAS”. Le ulteriori semplificazioni introdotte dal D.L. 77/2021 (Decreto Semplificazioni bis)” pubblicato nella pagina NEWS del sito dello Studio.

[3]art. 13, comma 4, D.Lgs. n. 471/1997.

[4]art. 13, comma 5, D.lgs. n. 471/1997.

[5]art. 3 D.Lgs. n. 74/2000.

[6]art. 10-quater D.lgs. n. 74/2000.

[7]la cui differenza rispetto al reato ex art. 316-ter c.p. risiede nella presenza dell’elemento dell’induzione in errore della Pubblica Amministrazione.

CILA Superbonus: la “CILAS” Le ulteriori semplificazioni introdotte dal D.L. 77/2021 (Decreto Semplificazioni bis)

La conversione in Legge del D.L. 77/2021 (il cd Decreto Semplificazioni-bis, convertito in L. n. 108 in data 29.07.2021) rappresenta l’ultima novità nel percorso di modificazione delle detrazioni fiscali per gli interventi di cui all’art. 119 del D.L. 34/2020 (c.d. Decreto Rilancio).

Dalla sua adozione, infatti, l’art. 119 del Decreto Rilancio, che ha introdotto il Superbonus (ossia un’agevolazione fiscale che stabilisce una detrazione pari al 110% per la realizzazione di interventi di efficientamento energetico, installazione di impianti fotovoltaici o di colonnine di ricarica per veicoli elettrici), ha subito numerose trasformazioni, tra cui l’estensione dell’ambito di applicazione della disposizione agli interventi sulle parti comuni degli edifici plurifamiliari quand’anche siano presenti degli abusi edilizi nelle parti private (D.L. 104/2020, convertito in L. 126/2020) e la proroga del beneficio fino al 30.06.2022, approvata con il D.L. 59/2021.

L’espansione della “CILAS” e le semplificazioni in tema di varianti e di attestazioni di legittimità e di agibilità

Rispetto alle precedenti modifiche, gli aggiustamenti apportati dal testo legislativo da ultimo adottato sono più consistenti e finalizzati a rendere l’accesso al Superbonus ancora più agevole.

1- Ampliamento del concetto di manutenzione straordinaria.

 Il previgente comma 13-ter dell’art. 119 D.L. 34/2020 è stato modificato nel senso di prevedere che le opere ivi contemplate si qualificano come interventi di manutenzione straordinaria, realizzabili mediante CILA quand’anche riguardino parti strutturali o prospetti degli edifici, ad esclusione dei soli interventi che comportano la demolizione e la ricostruzione degli immobili.

Si tratta di un’innovazione interessante, poiché potrebbe portare ad uniformare a livello nazionale l’operato degli sportelli unici per l’edilizia in relazione agli interventi sui prospetti: infatti, il governo del territorio costituisce materia di legislazione concorrente ai sensi dell’art. 117 Cost. e, per effetto della normazione specifica di ciascuna Regione, gli indirizzi dettati a livello statale vengono recepiti in modo differente dagli enti locali o anche solo dai tecnici comunali istruttori delle pratiche (ad esempio, l’intervento sulla facciata di un edificio potrebbe costituire attività di edilizia libera, o essere soggetto a CILA, SCIA o Permesso di costruire, a seconda della tipologia dei lavori o della qualificazione attribuita dal privato o dal tecnico comunale).

Con la novella, il legislatore ha espressamente ammesso la CILA per tutti interventi contemplati dal Superbonus, ad esclusione delle sole opere implicanti la demolizione e la ricostruzione degli edifici, sciogliendo ogni incertezza in merito all’individuazione del titolo abilitativo più conforme all’intervento da realizzare.

2 – Beneficio fiscale ed edilizia libera.

Per l’ottenimento del beneficio fiscale anche le opere di manutenzione ordinaria e di edilizia libera di cui all’art. 6 D.P.R. 380/2001, che normalmente non necessitano di alcun adempimento burocratico, devono essere oggetto di CILA (tali interventi non necessitano di rappresentazione grafica, ma di sola descrizione).

3 – Varianti in corso d’opera.

Altra importante novità introdotta dal D.L. 77/2021 è la possibilità di apportare delle varianti in corso d’opera alle CILA già depositate, che possono essere comunicate al termine dei lavori, pur costituendo parte integrante della comunicazione originaria: attualmente è possibile per i soli interventi ammessi dal Superbonus, ma non si esclude che tale disciplina possa essere estesa a tutti gli interventi di cui all’art. 6-bis D.P.R. 380/2001 (ossia, le opere soggette a CILA), con conseguente notevole snellimento degli adempimenti burocratici.

4 – Niente segnalazione certificata.

Il nuovo comma 13-quinquies dell’art. 119 D.L. 34/2020 (introdotto con il D.L. 77/2021) dispone che al termine dei lavori che beneficiano del Superbonus non è necessaria la segnalazione certificata di cui all’art. 24 D.P.R. 380/2001 (tramite segnalazione certificata, infatti, deve essere normalmente  attestata la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico e conformità dell’opera al progetto presentato), in quanto gli interventi contemplati dal Superbonus, in virtù della loro specifica finalità, conferiscono necessariamente agli edifici le caratteristiche di sicurezza, igiene ed efficienza energetica dell’intervento.

5 – Niente attestazione di conformità.

Infine, ed è la novità più attesa, l’art. 33, comma 1, lett. c, D.L. 77/2021 (che modifica il comma 13-ter dell’art. 119 D.L. 34/2020) prevede che la presentazione della CILA per gli interventi sopra descritti non deve più ricomprendere l’attestazione di legittimità dell’immobile ex art. 9-bis, comma 1-bis, D.P.R. 380/2001. Tale obbligo resta impregiudicato, naturalmente, per gli interventi che comportano la demolizione e la ricostruzione degli edifici.

Infatti, il nuovo art. 119, comma 13-ter, D.L. 34/2020 dispone che nella CILA Superbonus sono attestati solo “gli estremi del titolo abilitativo che ha previsto la costruzione dell’immobile oggetto d’intervento o del provvedimento che ne ha consentito la  legittimazione ovvero è attestato che la costruzione è stata completata in data  antecedente al 1° settembre  1967”.

Dunque, il tecnico istruttore della pratica edilizia non è più tenuto a verificare la condizione di legittimità “sostanziale” dell’immobile rispetto a quanto stabilito nel titolo abilitativo che ne ha consentito o legittimato la costruzione. Di conseguenza, gli eventuali abusi presenti non ostano alla realizzazione degli interventi ammessi dal Superbonus mediante CILAS. Naturalmente, sono esclusi da questa agevolazione gli immobili totalmente abusivi realizzati dopo il 1° settembre 1967, posto che in tale circostanza sarebbe comunque impossibile per il tecnico compiere le sopracitate attestazioni di cui all’art. 119, comma 13-ter, D.L. 34/2020.

Decadenza dal beneficio fiscale

Di seguito le ipotesi di decadenza dal Superbonus, determinate coerentemente con quanto disposto dall’art. 49 D.P.R. 380/2001.

Infatti, il comma 13-ter dell’art. 119 D.L. 34/2020 elenca tassativamente le quattro ipotesi di decadenza dal beneficio, che sono:

  1. la mancata presentazione della CILA;
  2. la difformità tra gli interventi descritti nella CILA e quelli realizzati;
  3. la mancata attestazione degli estremi del titolo abilitativo che ha consentito la costruzione o la legittimazione dell’immobile o che ne certifica il completamento in data antecedente il 01.09.1967;
  4. la non corrispondenza al vero delle attestazioni rese dai tecnici abilitati, ai sensi dell’art. 119, comma 14, D.L. 34/2020 (che prevede l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie per ciascuna attestazione o asseverazione infedele resa, salvo che il fatto non costituisca reato).

Il successivo comma 13-quater precisa che: “Fermo restando quanto previsto al comma 13-ter, resta impregiudicata ogni valutazione circa la legittimità dellimmobile oggetto di intervento”.

Con questo inciso, il legislatore ha inteso specificare che gli eventuali abusi presenti sull’edificio interessato dall’intervento non pregiudicano i richiedenti dall’accesso al Superbonus, ma li espone a tutte le altre conseguenze previste dalla legge. Inoltre, il comma 13-quater esclude qualsivoglia responsabilità in capo al tecnico abilitato che ha presentato la CILA, il quale, come precisato sopra, è solo tenuto ad effettuare un’attestazione “formale” limitata agli estremi del titolo abilitativo di prima costruzione o di regolarizzazione dell’immobile e non anche a verificare in maniera “sostanziale” l’effettivo stato legittimo del medesimo immobile.

Conclusioni

In un’ottica di accelerazione della ripresa del Paese dall’emergenza pandemica e, più in generale, di snellimento delle procedure in seno alla P.A., le novelle introdotte con il D.L. 77/2021 (convertito in L. n. 108/2021) appaiono idonee ad agevolare il funzionamento delle strutture amministrative ed a facilitare la realizzazione di interventi innovativi sotto il profilo energetico ed ecologico. Sebbene la nuova Legge sia di recentissima adozione, è già possibile riscontrare un tasso di efficacia piuttosto elevato ed un considerevole incremento delle richieste per l’accesso al Superbonus, segnali di accoglimento positivo del beneficio fiscale da parte del pubblico e – perché no – di una maggiore attenzione verso un uso oculato ed efficiente delle risorse energetiche.

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Pertinenze e distanze legali

Configurabilità dell’obbligo di osservare la disciplina in materia di distanze

  1. La “pertinenza”

Per analizzare compiutamente la questione, occorre delineare brevemente la nozione di “pertinenza”.

L’articolo 817 c.c. definisce le pertinenze come “cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”. La norma descrive, dunque, una fattispecie nella quale sussistono un oggetto principale ed un oggetto servente, o complementare rispetto al primo, collegati da un vincolo di funzionalità o di mera accessorietà.

In ambito civilistico, la destinazione della “res” a servizio o ad ornamento di un altro bene è attribuita dal proprietario o, comunque, da chi ne ha la disponibilità. In altri termini, deve sussistere, in capo al titolare del bene, l’effettiva volontà di asservire il medesimo ad un altro bene qualificato come principale[1].

Accanto alla definizione del Codice Civile, esiste una nozione urbanistico-edilizia di pertinenza, che presenta delle caratteristiche più specifiche e contempla un numero inferiore di casi.

In particolare, una recente pronuncia del Consiglio di Stato elenca gli elementi costitutivi delle pertinenze, che sono l’esiguità quantitativa (intesa come inidoneità ad alterare in modo rilevante l’assetto del territorio) e l’esaurimento della loro finalità nel rapporto con il bene principale (cioè, le pertinenze devono essere preordinate alla soddisfazione di una specifica esigenza del bene principale e devono porsi al servizio di quest’ultimo in maniera funzionale ed oggettiva)[2]. Le pertinenze sono altresì connotate dall’assenza di un autonomo valore di mercato, proprio in forza dell’impossibilità di conferire alle medesime una destinazione diversa da quella di asservimento rispetto ai beni cui accedono.

Per distinguere le pertinenze “civilistiche” da quelle “urbanistico-edilizie”, è possibile formulare il seguente esempio, tratto da una recente sentenza del TAR per la Campania[3]: una piscina interrata costituisce certamente una pertinenza ai sensi dell’articolo 817 c.c. ma non una pertinenza in termini urbanistico-edilizi per due ordini di ragioni: in primo luogo, un manufatto di tal sorta incide invasivamente sul sito di ubicazione, provocando una notevole alterazione del terreno circostante; in secondo luogo, l’uso di una piscina non è finalizzato alla fruizione dell’abitazione cui accede, ma costituisce un elemento ulteriore ed accessorio rispetto alla medesima: è dotata, cioè, di un’autonomia funzionale rispetto al bene principale.

 

  1. Rispetto delle distanze legali

Illustrato sinteticamente il quadro nozionistico delle pertinenze, occorre precisare le circostanze nelle quali trova applicazione la normativa in materia di distanze.

In particolare, si distinguono pertinenze che costituiscono nuove costruzioni e che, quindi, necessitano di un titolo edilizio (quali, ad esempio, box auto, piscine interrate, capanni per attrezzi fissati al suolo, ecc.) e pertinenze che non sono nuove costruzioni (come gazebo, piscine smontabili, tettoie con mera finalità di arredo o capanni amovibili).

La qualità di nuova costruzione si rivela dirimente per configurare l’applicabilità o meno della disciplina in materia di distanze.

Per “nuove costruzioni” si intendono i manufatti recanti le caratteristiche di cui all’articolo 3, comma I, lettera e) del D.P.R. 380/2001 o, secondo un consolidato dettato giurisprudenziale, “qualsiasi opera non completamente interrata avente i requisiti della solidità, della immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una preesistente fabbrica[4].

Per i manufatti ascrivibili all’articolo 3, comma I, lettera e) del D.P.R. 380/2001 (siano queste edifici principali o pertinenze) è prevista una vasta disciplina in materia di distanze legali, che spazia dalle previsioni codicistiche di cui agli articoli 873 c.c. e segg. alle numerose disposizioni contenute nelle leggi speciali e nelle normative urbanistiche locali.

Ad esempio, per le nuove costruzioni è prescritta l’osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. 1444/1968 e della fascia di rispetto stradale di cui al D.Lgs. 285/1992 (“Nuovo Codice della Strada”), poiché sottese, rispettivamente, a prevenire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario ed a garantire la sicurezza del traffico dei veicoli.

Tali disposizioni, in quanto preordinate alla tutela di interessi generali, hanno carattere imperativo ed inderogabile[5].

Tuttavia, nel rapporto tra l’edificio principale e la pertinenza non è prescritto il rispetto delle distanze legali poichè, nell’ambito dell’esercizio del diritto di proprietà, il privato gode della facoltà di collocare il bene pertinenziale nella posizione ritenuta più confacente, purché ciò non comporti una violazione delle norme sulle distanze dai confini, dagli altri fabbricati, dalle fasce di rispetto o di qualsivoglia altra distanza posta a tutela di interessi generali.

Tale regola è ovviamente riferibile alle sole pertinenze che costituiscono nuove costruzioni ai sensi dell’articolo 3, comma I, lettera e), D.P.R. 380/2001, in quanto il carattere permanente – anche potenziale – di tali manufatti potrebbe ostacolare la tutela delle esigenze collettive che fondano la normativa sulle distanze.

Peraltro, la giurisprudenza amministrativa, evidenziando che “la normativa dettata in materia di distanze legali è diretta ad evitare la formazione di strette e dannose intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e luminosità”, ha sancito l’inapplicabilità della normativa inerente alla distanza tra costruzioni ad un manufatto completamente interrato quale una piscina (TAR Lombardia, 20.12.1988, n. 428; Cass. Civ. Sez. II, Sent., 06.05.2014, n. 9679).

Invece le pertinenze che non costituiscono nuove costruzioni non sono soggette al rispetto della disciplina in materia di distanze.

Al riguardo, occorre puntualizzare che tale deroga trova applicazione per i soli manufatti precari di cui all’articolo 6, lett. e-bis, del D.P.R. 380/2001, ossia per “le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori allamministrazione comunale”.

Le opere contemplate dalla precitata disposizione non sono assoggettate al rispetto delle distanze legali perché non ostano alla tutela degli interessi collettivi posti a fondamento della relativa disciplina. Infatti, in caso di conflitto tra l’installazione di un manufatto precario ed un’esigenza di carattere pubblico (ad esempio, la creazione di una corsia stradale provvisoria per l’esecuzione di lavori), sarà sufficiente rimuovere o spostare il manufatto interessato.

Pertanto, le opere che non devono rispettare le distanze devono essere inidonee ad incidere sul tessuto urbanistico e deputate a soddisfare esigenze meramente contingenti, a nulla rilevando le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati per la loro installazione o l’agevole amovibilità delle medesime; in altri termini, deve trattarsi di manufatti destinati ad un uso precario e limitato nel tempo, tale da essere eliminato alla cessazione della necessità[6] od all’insorgenza di un interesse pubblico prevalente sull’esigenza privata di collocare il manufatto in una determinata posizione.

Da ultimo, nella Sentenza n. 109/2021 il TAR Molise[7], richiamando una giurisprudenza uniforme, conferma che l’osservanza delle distanze legali è prevista per i soli manufatti caratterizzati da “solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo” e, dunque, preordinati a soddisfare esigenze permanenti.

Per concludere, il rapporto tra le opere pertinenziali ed il regime delle distanze trova diversa regolamentazione a seconda che l’opera interessata consista in una nuova costruzione o meno. In base alle esigenze collettive in gioco, la normativa nazionale e locale di dettaglio determina le distanze più confacenti al bilanciamento tra l’imprescindibile salvaguardia di interessi generali, quali la pubblica sicurezza o la pubblica igiene, ovvero il rispetto di fasce stradali, e la necessità di eseguire specifiche attività edilizie sulla proprietà privata.

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[1] Cass. civ., Sez. VI-2, Ord. 17.10.2017, n. 24432, che richiama, ex multis: Cass., Sez. II, 20.01.2015, n. 869 e Cass., Sez. II, 10.06.2011, n. 12855.

[2] Cons. Stato, Sez. II, 5.06.2019, n. 3807.

[3] TAR Campania, Sez. III, 09.09.2020, n. 3730.

[4] Cass. Civ., Sez. II, Ord. 23.05.2019, n. 14092.

[5] TAR Campania, Sez. II, 11.03.2021, n. 1624.

[6] Cass. Sez. III Pen., 30.05.2019, n. 24149.

[7] TAR Molise, Sez. I, 22.03.2021, n. 109.

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