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USUCAPIBILITÀ DI UN BENE ABUSIVO REALIZZATO SU AREA PARTE DEL PATRIMONIO INDISPONIBILE.<br>Corte di Cassazione, Sezione Seconda, Ordinanza n. 28481 del 12.10.2023.

Con Ordinanza n. 28481del 12.10.2023, la Sezione Seconda della Corte di Cassazione ha ribadito l’ammissibilità dell’acquisto per usucapione di un bene abusivo realizzato su terreno comunale, gravato da vincolo di inedificabilità, qualora non emerga specificatamente l’effettiva destinazione ad uso pubblico del bene appartenente al patrimonio indisponibile.

Per la Corte, inoltre, a nulla rileva il difetto del titolo edilizio in quanto tale vizio esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem, ribadendo, altresì, i requisiti necessari affinché un bene rientri nel patrimonio indisponibile e dunque non sia assoggettabile ad usucapione.

Beni pubblici: beni demaniali e patrimoniali.

I beni pubblici sono i beni che appartengono allo Stato o ad un altro ente pubblico atti al soddisfacimento di un pubblico interesse; si distinguono in i) beni demaniali e ii) beni patrimoniali.

i) I beni demaniali presentano i seguenti requisiti essenziali:

– sono sempre beni immobili o universalità di immobili;

– appartengono ad enti pubblici territoriali (Stato, Regioni, Province, Comuni);

– sono inalienabili, così come previsto dall’art. 825 c.c., ai sensi del quale “I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”;

– non sono acquistabili per usucapione, in quanto non possono formare oggetto di diritti di terzi, se non nei modi e limiti normativamente previsti;

–  non sono espropriabili.

Gli artt. 822 c.c. e seg. elencano tassativamente i beni appartenenti al demanio pubblico[1].

Appartengono al demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia e le opere destinate alla difesa nazionale.

I beni demaniali si distinguono ulteriormente in a) beni del demanio necessario o naturale, ossia i beni di esclusiva appartenenza dello Stato(i.e. il demanio marittimo, demanio militare e demanio idrico) e b) beni del demanio accidentale, ossia beni che possono non essere di proprietà di enti pubblici territoriali, come il demanio stradale o quello culturale.

ii) I beni patrimoniali possono anche essere beni mobili ed appartenere a qualsiasi ente pubblico (dunque non necessariamente territoriale), e si distinguono in a) beni del patrimonio indisponibile e b) beni del patrimonio disponibile.

a) I beni patrimoniali indisponibili presentano il vincolo della destinazione ad un servizio pubblico e devono essere effettivamente utilizzati per il servizio pubblico cui sono destinati.

Ai sensi dell’art. 826[2] c.c. sono beni patrimoniali indisponibili le foreste, le miniere, le acque minerali e termali, le cave e le torbiere, la fauna selvatica, ed i beni di interesse storico, archeologico, artistico, i beni militari non rientranti nel demanio militare, gli edifici destinati a sede degli uffici pubblici e i beni costituenti la dotazione del Presidente della Repubblica.

L’art. 828 c.c. stabilisce che “I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”.

b) I beni del patrimonio disponibile, infine, sono tutti gli altri beni, diversi da quelli demaniali o appartenenti al patrimonio indisponibile, tra cui rientra il patrimonio mobiliare, fondiario ed edilizio dello Stato o di altri enti pubblici.

Questi beni sono alienabili, usucapibili, assoggettabili a diritti reali di terzi e soggetti alle regole del codice civile.

I requisiti dell’usucapione: brevi cenni.

L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà o di altro diritto reale a titolo originario che trova disciplina negli artt. 1158 c.c. e seg..

L’usucapione risponde all’esigenza di eliminare le situazioni di incertezza circa l’appartenenza dei beni, in presenza di una consolidata situazione di fatto, qual è il possesso di un bene protratto per un certo tempo.

I requisiti dell’istituto sono i seguenti:

  • il potere di fatto sulla cosa (corpus possessionis): ovvero l’elemento oggettivo del possesso caratterizzato dal potere di fatto sulla cosa e, quindi, la soggezione della cosa al soggetto e la corrispondente signoria del soggetto sulla cosa stessa;
  • l’animus possidendi: rappresenta la componente soggettiva, intesa come intenzione di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale;
  • il possesso pacifico, inequivoco, pubblico e continuato;
  • il possesso ininterrotto nel tempo;
  • la mancata rivendicazione del bene da parte del proprietario.

L’Ordinanza n.28481 del 12.10.2023della Corte di Cassazione.

1) Il Caso.

La quaestio a fondamento del giudizio trae origine dalla richiesta da parte di un privato di accertare l’intervenuta usucapione su una porzione di terreno sul quale è stato realizzato un immobile in violazione del titolo edilizio.

Sia il Giudice di prime cure che il Giudice d’appello hanno rigettato la domanda, ritenendo l’immobile appartenente al patrimonio indisponibile, in quanto ricompreso nel piano paesaggistico e gestito dal Comune in funzione di un pubblico interesse e, dunque, non usucapibile.

Il privato ha proposto ricorso in Cassazione, eccependo in particolare i) la “violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 281 sexies c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 […]Secondo il ricorrente, per la qualificazione di un bene come appartenente al patrimonio indisponibile dell’ente sono necessari non solo la titolarità in capo all’ente, ma anche la manifestazione di volontà di quest’ultimo nel senso di voler destinare il bene a un pubblico servizio e l’effettiva e attuale destinazione del bene al pubblico servizio” e ii)la violazione e falsa applicazione degli artt. 826, 828 e 1145 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 […], per avere i giudici di merito ritenuto che il bene oggetto di domanda facesse parte del patrimonio indisponibile per destinazione del Comune di (Omissis) in ragione della sussistenza dei due requisiti soggettivo e oggettivo previsti a tal fine dall’art. 826 c.c.[3].

2) Il consolidato orientamento della Corte di Cassazione.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, affinché un bene possa considerarsi appartenente al patrimonio indisponibile, e pertanto non usucapibile, devono sussistere i) il requisito oggettivo, ossia la manifestazione della volontà dell’ente titolare del bene, espressa in un atto amministrativo, di destinare lo stesso ad un pubblico servizio e ii) l’elemento soggettivo, ovvero l’effettiva ed attuale destinazione del bene all’uso pubblico.

Sul punto la Corte di Cassazione  a Sezioni Unite nella Sentenza n. 14865/2006 ha affermato che “Al riguardo devesi, infatti, ribadire che, onde un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c., comma 3, deve sussistere il doppio requisito (soggettivo ed oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio) e dell’effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio (Cass., Sez. Un., 27 novembre 2002, n. 16831; Cass., Sez. Un., 15 luglio 1999, n. 391) , per cui non è sufficiente la semplice previsione dello strumento urbanistico circa la destinazione di un’area alla realizzazione di una finalità di interesse pubblico”.

Secondo tale orientamento, ai fini della qualificazione di un bene come appartenente al patrimonio indisponibile, occorre che il bene effettivamente e concretamente sia destinato al pubblico servizio, non bastando un semplice progetto di utilizzazione, rappresentativo di una volontà inattuata, ancorché espressa in un atto amministrativo, poiché questa non incide sulle caratteristiche oggettive del bene.

3) La decisione della Corte di Cassazione.

La Corte ha ritenuto fondati i motivi del ricorso, rilevando l’assenza dei requisiti necessari per l’identificazione del bene come facente parte del patrimonio indisponibile, ed in particolare l’elemento soggettivo; infatti: “Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, “affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c., comma 3, deve sussistere il doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio) e dell’effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio” (Cass., Sez. Un., del 28/06/2006, n. 14865; Cass., Sez. 2, 13/3/2007, n. 5867; Cass., Sez. 2, 9/6/2023, n. 17427), la cui mancanza deve essere desunta dalla decorrenza, rispetto all’adozione dell’atto amministrativo, di un periodo di tempo tale da non essere compatibile con l’utilizzazione in concreto del bene a fini di pubblica utilità (Cass., Sez. 2, 26/11/2020, n. 26990; Cass., Sez. Un., 16/12/2009, n. 26402), senza che rilevi l’appartenenza del bene a un ente pubblico economico, poiché sull’elemento soggettivo prevale quello oggettivo della destinazione concreta del bene al pubblico servizio (Cass., Sez. 3, 22/6/2004, n. 11608)”.

Ai fini della qualificazione di un bene come appartenente al patrimonio indisponibile “non è sufficiente la semplice previsione dello strumento urbanistico circa la destinazione di un’area alla realizzazione di una finalità di interesse pubblico (Cass., Sez. U., 28/06/2006, n. 14865 ), atteso che l’appartenenza di un bene alla categoria dei beni del patrimonio indisponibile, in quanto destinati ad un pubblico servizio, deve necessariamente riferirsi ad una concreta ed effettiva utilizzazione del bene e non ad un mero progetto di utilizzazione, che di per sé esprime solo una intenzione, la quale, ancorché espressa in un atto amministrativo, non incide, di per sé, sulle oggettive caratteristiche del bene”.

Per la Corte la verifica sull’effettiva utilizzazione del bene per pubblico interesse non è stata effettuata dai Giudici di merito che hanno desunto il vincolo pubblicistico ed attribuito la natura di bene patrimoniale indisponibile (dunque non usucapibile) “dalla sua ricomprensione nel piano paesaggistico di (Omissis), quale atto idoneo ad esprimere la volontà dell’ente, e dalla gestione comune del Comune di (Omissis) e del Comune di (Omissis) in funzione di pubblico interesse, omettendo di verificare in via di fatto se tale destinazione – peraltro in sé non indicativa di un’effettiva volontà in tal senso, stante l’assenza di disposizioni normative al riguardo nel D.M. di seguito indicato – avesse avuto materiale esecuzione”.

Per il Collegio a nulla rileva, ai fini del perfezionamento dei requisiti ad usucapionem, il fatto che l’immobile sia stato edificato senza il permesso di costruire poiché tale vizio ha rilevanza solo sul piano pubblicistico, inficiando unicamente il rapporto tra l’Amministrazione ed il privato.

La Corte, inoltre, non discostandosi dall’orientamento prevalente, introduce un ulteriore aspetto: “Né può darsi rilievo al vincolo di inedificabilità del fondo e alla illiceità della costruzione ivi realizzata, come evidenziato dal controricorrente, dovendosi confermare il principio secondo cui il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem”.

La Corte di Cassazione, dunque, ritenendo fondate le censure del ricorrente relative al mancato accertamento da parte dei Giudici di merito dell’effettiva destinazione pubblica del bene, ha accolto il ricorso e cassato la pronuncia con rinvio alla Corte d’Appello competente.

[1] Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia, e le opere destinate alla difesa nazionale.
Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico.
[2]I beni appartenenti allo Stato, alle Province e ai Comuni, i quali non siano della specie di quelli indicati dagli articoli precedenti, costituiscono il patrimonio dello Stato o, rispettivamente, delle Province e dei Comuni.
Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e le torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico ed artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra.
Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle Province e dei Comuni secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio.
[3]Cfr. Corte di Cassazione, Ord. n. 28481/2023.

IL SILENZIO-ASSENSO “ORIZZONTALE” NELL’AMBITO DEL PROCEDIMENTO DI RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA.<br> Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 8610/2023

Il Consiglio di Stato ammette l’applicabilità del silenzio-assenso cosiddetto “orizzontale” ex art. 17 bis L. n. 241/1990 nell’ambito di un procedimento di autorizzazione paesaggistica e, in particolare, al parere paesaggistico reso tardivamente nel corso di una conferenza di servizi indetta ai sensi dell’art. 14 bis L. n. 241/1990.

Il caso.

La vicenda giudiziaria in merito alla quale si è pronunciato il Consiglio di Stato trae origine dal ricorso promosso da un proprietario di un terreno ricompreso in area assoggettata a tutela paesaggistica ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. f) D.Lgs. n. 42/2004 e del D.M. 10.10.1967, il quale aveva richiesto il rilascio del permesso di costruire per l’edificazione di una residenza turistico-alberghiera e formulato domanda di autorizzazione paesaggistica.

L’Amministrazione comunale interessata aveva indetto la conferenza di servizi decisoria, in forma semplificata e con modalità asincrona ex art. 14 bis L. n. 241/1990, al fine di acquisire tutti i necessari atti di assenso, compreso il parere della competente Soprintendenza.

Tuttavia, la Soprintendenza aveva espresso il parere contrario ben oltre il termine assegnato dall’Amministrazione procedente la quale, dopo aver riattivato l’istruttoria procedimentale, cui è seguita la conferma del parere contrario da parte della Soprintendenza, rilevava che il dissenso espresso non era superabile senza apportare modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza, così come rappresentato nel parere contrario della Soprintendenza.

Il proprietario, quindi, adiva il competente Tribunale Amministrativo Regionale per impugnare la decisione del Comune; il giudizio si era concluso con l’accoglimento del ricorso: in particolare, il TAR aveva rilevato che “…agli atti risulta evidentemente inosservato il termine legalmente previsto per l’adozione del richiesto atto consultivo da parte dell’Autorità Tutoria; la circostanza dianzi acclarata, ossia l’intempestività dell’intervento consultivo da parte dell’autorità tutoria statale, ha finito per generare la formazione del silenzio assenso “orizzontale” o “interno” ex art. 14 bis, comma 4, della l. n. 241/1990 (di recente modificato dall’art. 12, comma 1, lett. g, del d.l. n. 76/2020, conv. in l. n. 120/2020) sull’istanza di autorizzazione paesaggistica relativa al progetto controverso e per implicare l’inefficacia ex art. 2, comma 8 bis, della l. n. 241/1990 del parere soprintendentizio negativo”.

Avverso la Sentenza di prime cure il Ministero della Cultura ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato eccependo che, per costante indirizzo giurisprudenziale, l’art. 17 bis L. n. 241/1990, in materia di silenzio-assenso endoprocedimentale, si applica solo ai rapporti orizzontali tra Amministrazioni e non anche al procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, posto che trattasi di procedimento mono-strutturato in cui prevale la volontà di una singola Pubblica Amministrazione.

Pertanto, il Ministero appellante ha sostenuto che il parere tardivo della Soprintendenza non sarebbe tamquam non esset e che di esso il Comune deve comunque tenere conto ai fini della determinazione in ordine al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

Il quadro normativo-giurisprudenziale.

Anteriormente alla “riforma Madia” del 2015, ai sensi dell’articolo 146 D.Lgs. n. 42/2004 in materia di autorizzazione paesaggistica, l’Autorità competente alla gestione del vincolo doveva provvedere sulla domanda del privato entro 60 giorni, acquisito il parere del Soprintendente (obbligatorio e vincolante fino alla conformazione o all’adeguamento dello strumento urbanistico alla nuova pianificazione paesaggistica), da rendere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti; in caso di inutile decorso del predetto termine si configurava il cosiddetto silenzio devolutivo: in sostanza, in mancanza del parere della Soprintendenza, il Comune procedente aveva il dovere funzionale di decidere autonomamente sulla domanda.

In questa ipotesi, il potere della Soprintendenza di esprimere il proprio parere veniva meno solo nel momento in cui il Comune avrebbe definito il procedimento con l’adozione dell’autorizzazione paesaggistica, non consumandosi automaticamente allo scadere del termine di 45 giorni: il parere ministeriale “tardivo”, dunque, non era nullo o annullabile, ma perdeva solo la sua efficacia vincolante e veniva degradato a mero parere obbligatorio, da dover comunque essere preso in considerazione dal Comune che non avesse ancora provveduto. Il Comune avrebbe poi dovuto obbligatoriamente motivare l’eventuale adozione di un provvedimento contrastante con il parere della Soprintendenza.

In tale contesto, assumeva particolare rilievo la distinzione tra silenzio devolutivo e silenzio-assenso: i) il primo imputava l’autorizzazione paesaggistica esclusivamente all’Ente territoriale che l’aveva rilasciata; ii) il secondo riconduceva il provvedimento (in co-decisione) ad entrambe le Amministrazioni.

Il quadro normativo, tuttavia, è cambiato con l’avvento della menzionata “riforma Madia”, la quale si è discostata dalla tradizionale attribuzione di una tutela rafforzata degli interessi sensibili (tra i quali la tutela ambientale) nell’ambito del procedimento amministrativo, introducendo il disposto di cui all’art. 17 bis L. n. 241/1990:la norma prevede che nelle ipotesi in cui un’Amministrazione procedente, su uno schema o una proposta di provvedimento, deve acquisire l’assenso, il concerto o il nulla osta, comunque denominati, di altre Pubbliche Amministrazioni, queste devono comunicare la propria determinazione entro un termine tassativo (30 giorni).In caso di inutile decorso di tale termine si forma ope legis il silenzio-assenso. Il comma 3 dell’articolo in questione stabilisce altresì che, in caso di mancata pronuncia, il silenzio-assenso si forma anche nelle ipotesi in cui le Amministrazioni chiamate a pronunciarsi (a fini decisori)siano quelle preposte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, dei beni culturali e della salute.

Nonostante l’innovazione normativa in questione, ricomprendente anche la “riscrittura” della disciplina della conferenza di servizi, parte della giurisprudenza ha comunque continuato ad applicare il modello del parere meramente devolutivo: secondo tale indirizzo interpretativo, in caso di pronuncia tardiva, ma comunque anteriore alla definizione del procedimento ed al rilascio del provvedimento autorizzativo da parte del Comune, il parere della Soprintendenza era da intendersi “dequotato” ad obbligatorio, restando efficace e fondando l’obbligo per l’Amministrazione procedente di esaminarlo e di motivare il proprio provvedimento finale in caso di dissenso.

Aderendo a tale indirizzo interpretativo, in alcune statuizioni anche inerenti l’acquisizione del parere della Soprintendenza nell’ambito di una conferenza di servizi, è stato affermato che la Soprintendenza, esprimendo il proprio parere sulla proposta di autorizzazione paesaggistica, deve ignorare la compresenza di qualsiasi altro interesse pubblico anche di analoga valenza quale, ad esempio, quello della tutela ambientale: le argomentazioni a sostegno di tali assunti muovevano dal presupposto per cui l’autorizzazione paesaggistica costituisce un provvedimento mono-strutturato, posto che il relativo procedimento è attivato ad istanza della parte interessata e non dell’Amministrazione procedente. Pertanto, il rapporto intercorrente tra la Regione, l’Ente locale e la Soprintendenza, nell’ambito del procedimento, è meramente interno e finalizzato a co-gestire la fase istruttoria e non quella decisoria.

Corollario di tale premessa argomentativa è stata l’inapplicabilità del precitato art. 17bis per il parere della Soprintendenza, posto chela norma non riguarda la fase istruttoria del procedimento amministrativo influendo solo sulla fase decisoria attraverso la formazione di un atto di assenso persilentium.

La disciplina del silenzio assenso “orizzontale”, dunque, andrebbe riferita agli assensi da rendere direttamente dall’Amministrazione procedente e non già al parere della Soprintendenza, che si esprime sulla proposta formulata dalla Regione o dall’Ente delegato, e non direttamente sulla compatibilità dell’intervento.

La Sentenza: Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 8610/2023.

Nella lunga e dettagliata Sentenza n. 8610/2023 il Consiglio di Stato ha smentito il richiamato orientamento giurisprudenziale, evidenziando preliminarmente che il procedimento di autorizzazione paesaggistica, anche alla luce dell’art. 146 D.Lgs. n. 42/2004 come novellato dalla riforma del 2011, deve essere più propriamente qualificato come pluristrutturato.

Per l’effetto, l’art. 17bis L. n. 241/1990trova applicazione proprio con riferimento ai procedimenti caratterizzati da una fase decisoria pluristrutturata e, dunque, nei casi in cui l’atto da acquisire, al di là del nomen iuris, abbia valenza co-decisoria.

Tale conclusione, già rilevata in un precedente parere dello stesso Consiglio di Stato[1],trova conferma non solo nel dettato testuale e nella ratio sottesa al citato art. 17 bis, ma anchenel “nuovo” art. 2, comma 8bis, L. n. 241/1990 il quale, riferendosi espressamente alle fattispecie del silenzio maturato nel corso di una conferenza di servizi ex art. 14bisL. n. 241/1990, afferma inequivocabilmente il principio (che non ammette eccezioni) per il quale le determinazioni tardive sono irrilevanti in quanto prive di effetti nei confronti dell’Autorità competente, e non soltanto prive di carattere vincolante come preteso dall’orientamento giurisprudenziale di segno contrario.

Pertanto, il Consiglio di Stato ha concluso che il silenzio-assenso “orizzontale” si configura anche nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica in seno alla conferenza di servizi, nell’ambito del quale la Soprintendenza è chiamata ad esprimere il parere che, se reso tardivamente, è da considerarsi tamquam non esset.

Infatti, a giudizio del Collegio, la volontà del Legislatore sottesa alle riforme che hanno interessato gli istituti di semplificazione di cui agli artt. 14bis e 17bis L. n. 241/1990 è stata quella di voler raggiungere un delicato punto di equilibrio tra la tutela degli interessi sensibili e l’esigenza di garantire una risposta (positiva o negativa) entro termini ragionevoli all’operatore economico il quale, diversamente, rimarrebbe esposto al rischio dell’omissione burocratica.

Il meccanismo del silenzio-assenso “orizzontale”, dunque, manifestando la contrarietà dell’ordinamento all’inerzia amministrativa, ricollega al silenzio dell’Amministrazione interpellata “la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei “rimedi”, ossia l’equiparazione del silenzio all’assenso con conseguente perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento”.

[1] Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 23 giugno 2016, Parere n. 1640/2016

CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA N. 16 IN DATA 11.10.2023. GLI EFFETTI DELL’INOTTEMPERANZA ALL’INGIUNZIONE DI DEMOLIZIONE

Con la recente Sentenza n. 16 in data11.10.2023 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata sulle questioni rimesse alla sua attenzione con Ordinanza n. 3974 del 19.04.2023[1] del Consiglio di Stato, Sez. VI, e connesse alle conseguenze derivanti dall’inottemperanza dell’ingiunzione di demolizione.

In particolare, i quesiti su cui si è espresso il superiore organo di giustizia amministrativa vertono sull’art. 31, commi 3 e 4-bis, D.P.R. 380/2001 (in seguito “TUE”): il primo connesso all’effetto traslativo in caso di inottemperanza del privato, il secondo relativo all’irrogazione della sanzione pecuniaria.

I quesiti.

Con Ordinanza n. 3974 del 19.04.2023 il Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria la soluzione dei seguenti quesiti:

1) se, e in che limiti, l’inottemperanza alla ingiunzione di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, abbia effetti traslativi automatici che si verificano alla scadenza del termine di novanta giorni assegnato al privato per la demolizione;

2) se l’art. 31, comma 4 bis, del D.P.R. n. 380/01sanzioni l’illecito costituito dall’abuso edilizio o, invece, un illecito autonomo di natura omissiva, id est, l’inottemperanza alla ingiunzione di demolizione;

3) se l’inottemperanza all’ordine di demolizione configuri un illecito permanente ovvero un illecito istantaneo ad effetti eventualmente permanenti;

4) se la sanzione di cui all’art 31 comma 4-bis D.P.R. 380/01 possa essere irrogata nei confronti di soggetti che hanno ricevuto la notifica dell’ordinanza di demolizione prima dell’entrata in vigore della L. n. 164 dell’11.11.2014, quando il termine di novanta giorni, di cui all’art. 31, comma 3, risulti a tale data già scaduto e detti soggetti più non possano demolire un bene non più loro, sempre sul presupposto che a tale data la perdita della proprietà in favore del comune costituisca un effetto del tutto automatico”.

Il contrasto giurisprudenziale.

La giurisprudenza si è sin da subito posta il problema circa l’applicabilità della sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, TUE agli abusi commessi prima dell’entrata in vigore del D.L. 133/2014. Sul punto si sono formati due diversi orientamenti, che fondano le proprie argomentazioni sull’identificazione e sulla qualificazione dell’oggetto dell’illecito.

Con riguardo al primo profilo, la giurisprudenza è divisa: per una parte, oggetto dell’illecito sarebbe il mancato ripristino dell’abuso edilizio; per altra parte[2], prevalente, l’art 31, comma 4-bis, TUE sanzionerebbe l’inottemperanza all’ordine di demolizione, ossia la condotta omissiva consistente nel non provvedere alla rimessione in pristino dopo aver ricevuto il relativo ordine.

Relativamente alla qualificazione dell’illecito, invece, esiste un primo orientamento[3], pressoché unanime, in base al quale l’inottemperanza all’ordine di demolizione costituisce un illecito avente natura permanente che si protrae fino alla cessazione della situazione di illiceità, in quanto lo scadere del termine di novanta giorni dalla notificazione dell’ordine di demolizione non determina il venir meno dell’obbligo di rimuovere le opere abusive. Per tale ragione, si ritiene applicabile la sanzione anche agli abusi che, pur se precedenti all’entrata in vigore della norma, siano rimasti tali anche successivamente.

Conseguentemente, è stato affermato che il principio di irretroattività della legge – e delle sanzioni amministrative in particolare – non osta all’irrogazione della sanzione di cui all’art 31, comma 4-bis, TUE in relazione ad ordinanze di demolizione notificate in data antecedente rispetto all’entrata in vigore della norma, a condizione che l’inottemperanza all’ordine di demolizione si sia protratta anche dopo l’entrata in vigore della normativa stessa.

Un secondo orientamento, che fa capo ad alcune sentenze di primo grado, ritiene, invece, che l’abuso edilizio abbia natura di illecito istantaneo, facendone conseguire la non applicabilità della norma alle ordinanze per le quali il termine di adempimento fosse già scaduto alla entrata in vigore della normativa.

L’intervento repressivo degli abusi edilizi.

Prima di procedere all’esame dei quesiti, l’Adunanza Plenaria fornisce una ricostruzione analitica dell’intervento repressivo degli abusi operato dalle Amministrazioni, scomponendolo in quattro fasi.

  • La prima fase, di accertamento dell’abuso, si conclude, in caso di verifica positiva, con l’ordinanza di ingiunzione alla rimozione o alla demolizione. Nel medesimo provvedimento può essere indicata l’area che verrà acquisita di diritto in caso di inottemperanza, ma la mancata individuazione della stessa non comporta l’illegittimità dell’ordinanza, potendo l’Amministrazione fornire indicazioni nel successivo atto di accertamento dell’inottemperanza. Nel termine perentorio di 90 giorni il destinatario dell’ordine di demolizione può richiedere l’accertamento della conformità ex art. 36 TUE, provvedere alla demolizione o, ancora, chiedere una proroga dei termini per provvedervi.
  • Nella seconda fase il Comune provvede al sopralluogo e, qualora sia accertata la mancata esecuzione dell’ordinanza, adotta un atto, di natura ricognitiva, con cui rileva l’acquisizione ex lege del bene al patrimonio comunale e irroga la sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, TUE. L’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione costituiscono sanzioni distinte e svolgono due diverse funzioni[4]: la prima ha natura riparatoria e ha per oggetto le opere abusive, la seconda ha natura afflittiva e, pertanto, è necessario che l’illecito connesso alla mancata ottemperanza sia imputabile al destinatario dell’ordine di demolizione, con onere gravante su quest’ultimo di provarne l’insussistenza.
  • La terza fase prende avvio con la notificazione dell’accertamento dell’inottemperanza all’interessato e si conclude con l’immissione dell’Amministrazione nel possesso del bene, nonché con la trascrizione dell’acquisto nei registri immobiliari. Nulla di preciso si afferma sui tempi di tale ultimo adempimento, salvo che debba avvenire “con sollecitudine”. Una volta eseguita la notificazione, l’acquisto si intende a titolo originario con effetti retroattivi alla scadenza del termine di 90 giorni, salvo l’eventuale proroga concessa. Nella stessa fase il Comune è tenuto ad irrogare una sanzione pecuniaria. Tanto la mancata notificazione dell’accertamento quanto la mancata irrogazione della sanzionecostituisconoelementida valutareai fini dellaperformance individuale e della responsabilità disciplinare ed amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario.
  • La quarta fase riguarda, invece, la gestione del bene ormai di proprietà pubblica. Di regola l’Amministrazione deve provvedere alla demolizione, con spese a carico del responsabile, salvo che venga consentito all’autore, sulla base di una valutazione discrezionale dell’Ente, di provvedere egli stesso. Costituisce un’eventualità del tutto eccezionale, invece, la possibilità di mantenere l’immobile abusivo, a condizione che tale decisione sia sorretta da prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.

Inottemperanza all’ingiunzione di demolizione: oggetto, effetti e natura dell’illecito.

La risposta ai primi tre quesiti muove dalla fondamentale distinzione tra la natura dell’abuso in ambito penale e quella fatta propria dal diritto amministrativo.

Sotto il primo profilo, il fatto illecito costituisce reato istantaneo caratterizzato da una condotta attiva frazionata e perdurante nel tempo. Il legislatore, infatti, non ritiene penalmente rilevante la condotta omissiva, costituita dalla mancata demolizione di quanto realizzato. Diversamente, da una prospettiva strettamente amministrativa, l’illecito assume natura permanente in quanto la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione comporta un perdurante vulnus di valori tutelati dagli artt. 9-41-42-117 Cost.. Infatti, il legislatore ha disciplinato un secondo illecito di natura omissiva punito con la perdita della proprietà e dalla irrogazione della sanzione pecuniaria. La permanenza dell’illecito comporta la novazione oggettiva dell’obbligo previsto in capo al responsabile o al suo avente causa in quanto all’obbligo di demolire l’immobile abusivo ancora suo si sostituisce quello di rimborsare all’Amministrazione le spese sostenute per la demolizione.

Ne deriva che l’inottemperanza all’ordine di demolizione nel termine di 90 giorni, salvo proroga, costituisce illecito autonomo di natura omissiva, che produce effetti permanenti, sanzionato con l’acquisizione del bene al patrimonio comunale, il cui atto ha natura dichiarativa e comporta – in base alle regole dell’obbligo propter rem – l’acquisto ipso iure del bene identificato nell’ordinanza di demolizione.

Efficacia temporale della sanzione pecuniaria.

Con riguardo all’ultimo quesito, l’Adunanza Plenaria chiarisce che la sanzione di cui all’art. 31, comma 4-bis, TUE ha finalità di prevenzione generale e speciale, mirando ad evitare la commissione di ulteriori illeciti edilizi ed a salvaguardare il territorio nazionale. Pertanto, al fine di verificare l’applicabilità del regime sanzionatorio menzionato ai fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore della L. n. 164/2014, assumono rilevanza: il principio di irretroattività di cui all’art. 1 della L. n. 689/1981; il principio di certezza dei rapporti giuridici, in quanto l’autore prevedeva quale unica conseguenza dell’abuso unicamente la perdita della proprietà; il principio di tipicità e di coerenza, in quanto una volta intervenuta l’acquisizione al patrimonio pubblico verrebbe a punirsi una omissione inevitabile, non potendo il privato demolire un bene non più suo.

In conclusione, nell’accogliere le istanze dell’appellante, l’Adunanza Plenaria afferma che la sanzione pecuniaria in esame non può applicarsi nel caso in cui il termine di 90 giorni per ottemperare all’ordine di demolizione sia già decorso alla data di entrata in vigore della L. n. 164 del 11.11.2014, anche qualora l’inottemperanza sia stata accertata successivamente.

Il nudo proprietario.

Infine, seppure la questione non fosse oggetto di specifico e puntuale quesito, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Statosi è incidentalmente espressa su altra questione, di pari rilevanza, connessa alla figura del nudo proprietario, distinguendo due diverse ipotesi.

La prima concerne la posizione dell’avente causa di un bene caratterizzato dalla presenza di abusi già presenti al momento dell’acquisto. In tal caso, il Comune deve agire nei confronti del nuovo proprietario emanando, nei suoi confronti, tanto l’ordinanza di demolizione quanto il successivo atto di accertamento dell’inottemperanza. Infatti, sull’avente causa grava, in base al parametro dell’ordinaria diligenza, un onere di informazione tale per cui lo stesso subentra nella medesima posizione giuridica del suo dante causa ed è obbligato propter rem ad effettuare la demolizione.

La seconda fattispecie riguarda la posizione del nudo proprietario relativamente ad un abuso commesso, a sua insaputa, dall’usufruttuario del bene. In tal caso, l’Amministrazione è tenuta ad emanare l’ordinanza di demolizione nei confronti di entrambi in quanto “il nudo proprietario di un terreno non perde la disponibilità del bene, sebbene concesso in usufrutto a terzi” e, inoltre, “non si trova affatto […] in una posizione tale da non potersi opporre alla realizzazione, sull’immobile concesso in usufrutto, di opere abusive, né gli è precluso di agire direttamente, o per via giudiziale, per procedere al ripristino dello stato dei luoghi”; pertanto, risulta “legittima l’ordinanza di rimozione di opere abusive diretta anche al nudo proprietario” (Consiglio di Stato, Sent. in data 17.03.2023 n. 2769). Non solo. Dal momento che l’ordinanza di demolizione, diretta anche al nudo proprietario, contiene l’ordine di ripristino e l’avviso della perdita del diritto di proprietà in caso di inottemperanza entro il termine di 90 giorni, la regola della acquisizione di diritto si applica anche nei confronti di quest’ultimo, senza che abbia riguardo alcuno il fatto che l’abuso sia stato commesso dall’usufruttuario.

I principi enunciati dall’Adunanza Plenaria.

In via riassuntiva, rispetto ai quesiti formulati devono darsi le seguenti risposte:

a) la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione entro il termine da esso fissato comporta la perduranza di una situazione contra ius e costituisce un illecito amministrativo omissivo propter rem, distinto dal precedente ‘primo’ illecito – avente anche rilevanza penale – commesso con la realizzazione delle opere abusive;

b) la mancata ottemperanza – anche da parte del nudo proprietario – alla ordinanza di demolizione entro il termine previsto dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, impone l’emanazione dell’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale, tranne il caso in cui sia stata formulata l’istanza prevista dall’art. 36 del medesimo d.P.R. o sia stata dedotta e comprovata la non imputabilità dell’inottemperanza;

c) l’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale, emesso ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura dichiarativa e comporta – in base alle regole dell’obbligo propter rem – l’acquisto ipso iure del bene identificato nell’ordinanza di demolizione alla scadenza del termine di 90 giorni fissato con l’ordinanza di demolizione. Qualora per la prima volta sia con esso identificata l’area ulteriore acquisita, in aggiunta al manufatto abusivo, l’ordinanza ha natura parzialmente costitutiva in relazione solo a quest’ultima (comportando una fattispecie a formazione progressiva);

d) l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta la novazione oggettiva dell’obbligo del responsabile o del suo avente causa di ripristinare la legalità violata, poiché, a seguito dell’acquisto del bene da parte dell’Amministrazione, egli non può più demolire il manufatto abusivo e deve rimborsare all’Amministrazione le spese da essa sostenute per effettuare la demolizione d’ufficio, salva la possibilità che essa consenta anche in seguito che la demolizione venga posta in essere dal privato;

e) la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380del 2001 non può essere irrogata nei confronti di chi – prima dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 2014 – abbia già fatto decorrere inutilmente il termine di 90 giorni e sia risultato inottemperante all’ordine di demolizione, pur se tale inottemperanza sia stata accertata dopo la sua entrata in vigore”.

Considerazioni conclusive.

Le questioni su cui si è espressa l’Adunanza Plenaria, tutt’altro che banali dal punto di vista ermeneutico, rivestono una notevole rilevanza pratica. È di tutta evidenza, infatti, l’ingente numero di procedimenti che le Amministrazioni italiane avviano giornalmente per reprimere gli abusi edilizi, cui segue il più delle volte il ricorso agli organi di giustizia amministrativa da parte dei privati.

La questione connessa all’acquisizione automatica al patrimonio edilizio comunale dell’opera abusiva meriterebbe di essere approfondita dal legislatore anche sotto il profilo temporale, valutando l’opportunità di fissare termini certi entro cui il Comune debba espletare le formalità necessarie a garantire certezza del diritto e dei traffici giuridici a tutela della comunità e dell’autore dell’abuso, nonché di eventuali terzi aventi causa di quest’ultimo.

[1] Per un approfondimento: “CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA DEL 19.04.2023 N. 3974 GLI EFFETTI DELL’INOTTEMPERANZA ALL’INGIUNZIONE DI DEMOLIZIONE” del 02.05.2023, accessibile al seguente Link: https://spazio-edilizia.it/consiglio-di-stato-sez-vi-ordinanza-di-rimessione-alladunanza-plenaria-del-19-04-2023-n-3974-gli-effetti-dellinottemperanza-allingiunzione-di-demolizione/
[2]Consiglio di Stato,Sez. VI, Sent. in data 24.07.2019 n.5242; Sez. VI,Sent. in data 25.07.2022 n.6519.
[3]Consiglio di Stato, Sez. II, Sent. in data 14.02.2023 n. 1537; T.A.R. Calabria, Sez. II, Sent. n. 406/2022; Consiglio di Stato,Sez. VI, Sent. in data 16.04.2019 n.2484; Sez. VI, Sent. in data 03.01.2019 n. 85; 04.06.2018 n. 3351; Sez. VI, Sent. in data 29.1.2016 n. 357; Sez. VI, Sent. in data 09.08.2022 n.7023; Sez. VI, Sent. in data 16.04.2019 n. 2484.
[4]Corte costituzionale, Sent. in data 05.07.2018, n. 140 (pubblicata in G.U. 11.07.2018, n. 27).

USUCAPIBILITA’ DELLA SERVITU’ DI MANTENIMENTO DI UNA COSTRUZIONE A DISTANZA ILLEGALE Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, Ordinanza n. 25843 del 05.09.2023.

Con Ordinanza n. 25843 del 05.09.2023 la Sezione Seconda della Corte di Cassazione si è espressa circa la possibilità di acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore rispetto a quella dettata dal Codice Civile e dalle norme urbanistiche, anche nell’ipotesi in cui la costruzione sia abusiva.

La disciplina delle distanze legali

Ai sensi dell’art. 873 c.c. “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri.

Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”.

Il Legislatore ha così fissato una regola generale, imponendo una distanza minima di tre metri tra gli edifici finitimi.

Per fondi finitimi si intendono quei fondi che hanno in comune in tutto o in parte la linea di confine, cioè quelli che sono caratterizzati da continuità fisica e materiale per contatto reciproco lungo una comune linea di demarcazione.

Ratio della disposizione è quella di impedire strette ed insalubri intercapedini tra gli edifici privati, che, oltre ad ostacolare il godimento della luce e dell’aria, possono favorire anche il verificarsi di eventi sinistri quali furti o incendi. La norma tutela sia gli interessi generali sia quelli dei proprietari privati e persegue, altresì, finalità urbanistiche, garantendo una razionale organizzazione degli agglomerati urbani e l’equilibrata composizione spaziale – urbanistica.

Il secondo comma dell’art. 873 c.c. attribuisce carattere integrativo/derogatorio ai regolamenti locali.

I regolamenti edilizi locali sono atti di normazione secondaria ed hanno una efficacia integrativa della norma primaria.

Il Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia (D.P.R. n.380 del 2001) prevede all’articolo 2, quarto comma, che i Comuni nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’art. 3 del TUEL, possano disciplinare l’attività edilizia[1].

Il regolamento edilizio contiene la disciplina delle modalità costruttive con particolare riguardo al rispetto delle normative tecniche, estetiche, igienico – sanitarie, di sicurezza e vivibilità.

Le norme dei regolamenti edilizi che fissano distanze in deroga a quelle previste dalla normativa codicistica, stante il rinvio alle medesime contenuto nell’art. 873 c.c., hanno, pertanto, carattere integrativo.

La natura integrativa di tali norme non implica la sola deroga alle distanze minime legali ma si estende all’intero assetto ed impianto delle regole e dei principi che permeano la materia.

I regolamenti edilizi possono, dunque, derogare in melius le distanze legali, permettendo la costruzione di edifici a distanze maggiori da quelle previste dalla normativa codicistica.

Ai regolamenti edilizi è attribuito carattere cogente in quanto essi, pur costituendo fonte di diritti soggettivi privati, sono dettate a presidio di interessi urbanistici generali, non disponibili da parte dei soggetti privati: ad esempio, la fondamentale norma contenuta nell’art. 9 del D.M. n.1444 del 1968,disciplinante la distanza tra fabbricati ed edifici in termini pubblicistici, che, al fine di evitare la formazione di intercapedini dannose, prevede una distanza maggiore (dieci metri) tra edifici con pareti finestrate in deroga a quella prevista dall’art. 873 c.c..

I requisiti dell’usucapione

L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà o di altro diritto reale a titolo originario che trova disciplina agli artt. 1158 e ss. c.c..

L’art. 1158 c.c. prevede che “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.

L’usucapione risponde all’esigenza di eliminare le situazioni di incertezza circa l’appartenenza dei beni, in presenza di una consolidata situazione di fatto, qual è il possesso di un bene protratto per un certo tempo.

I requisiti dell’istituto sono i seguenti:

  1. il potere di fatto sulla cosa (corpus possessionis): ovvero l’elemento oggettivo del possesso caratterizzato dal potere di fatto sulla cosa e, quindi, la soggezione della cosa al soggetto e la corrispondente signoria del soggetto sulla cosa stessa;
  2. l’animus possidendi: l’animus rappresenta la componente soggettiva, intesa come intenzione di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale;
  • il possesso pacifico, inequivoco, pubblico e continuato;
  1. il possesso ininterrotto nel tempo;
  2. la mancata rivendicazione del bene da parte del proprietario.

La possibilità di usucapire il diritto di servitù avente ad oggetto una distanza legale non è sempre stata pacifica. Infatti, parte della dottrina ha configurato tale diritto come un vero e proprio diritto reale di servitù, ammettendo, quindi, che le servitù siano suscettibili di possesso e della relativa tutela.

L’orientamento opposto, invece, ha ritenuto che le limitazioni legali alla proprietà non derivano da un autonomo diritto reale, ma sono connaturate alle facoltà inerenti al diritto di proprietà: negando, dunque, la configurabilità di un loro possesso, ed ammettendo, tuttavia, la tutela possessoria, poiché la loro violazione si traduce in una molestia per il possessore del fondo protetto.

Sul punto si è espressa la Corte di Cassazione che in diverse pronunce ha ammesso la possibilità di acquistare per usucapione una servitù relativa ad una distanza legale. [2]

L’Ordinanza n. 25843 del 05.09.2023 della Corte di Cassazione

La quaestio a fondamento del giudizio trae origine dalla richiesta da parte dei proprietari di un compendio immobiliare di accertare l’illegittimità della costruzione di un fabbricato realizzato dai proprietari del fondo confinante in violazione delle distanze legali.

Nel giudizio di prime cure, parte attrice, in particolare, ha eccepito, nonostante la regolarizzazione in via amministrativa delle opere mediante il rilascio di concessione in sanatoria da parte del Comune, la violazione delle distanze legali di cui al D.M. n. 1444 del 1968 e del PRG del Comune vigente all’epoca della costruzione.

Parte convenuta, per converso, ritenendo legittima la costruzione, ha eccepito l’intervenuta usucapione del diritto a conservare l’edificio a distanza inferiore a quella legale.

Il Tribunale ha accolto l’eccezione dei convenuti di intervenuta usucapione a mantenere il fabbricato a distanza inferiore da quella legale “ritenendo i limiti imposti dai piani regolatori e dagli strumenti urbanistici, richiamati dall’art. 873, comma 2, c.c., derogabili dai privati e, conseguentemente, usucapibile il diritto reale al mantenimento del fabbricato”.

La decisione del Giudice di primo grado è stata confermata anche nel giudizio d’appello.

È stato, dunque, proposto ricorso innanzi al Corte di Cassazione per violazione degli artt. 873, 1061 e 1158 c.c., nonché dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968.

La Corte di Cassazione, ritenendo infondati i motivi del gravame, ha affermato che “Come ricorda Cass. ord. n. 343/2023, seppur non è mancata qualche pronuncia che ha opinato in senso contrario (come Cass. n. 20769 del 2007), ormai da tempo, questa Corte costantemente afferma che, in materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali”.

La Corte di Cassazione, pertanto, ha ritenuto ammissibile la possibilità di usucapire il diritto a tenere ad una distanza inferiore da quella legalmente prevista un immobile, precisando che “L’usucapibilità del diritto a tenere un immobile a distanza inferiore da quella legale non equivale, in effetti, alla stipula pattizia di una deroga in tal senso perché risponde alla diversa e ulteriore esigenza di garantire la stabilità dei rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo. Se dalla norma codicistica o da quella integrativa discende, come comunemente si afferma, il diritto soggettivo del vicino di pretendere che il confinante edifichi a distanza non inferiore a quella prevista, si deve, nondimeno, ammettere, ove anche si consideri vietata la deroga convenzionale, che l’avvenuta edificazione (con opere quindi permanenti e visibili), mantenuta con i requisiti di legge per oltre venti anni, dia luogo al verificarsi dell’usucapione, da parte del confinante, del diritto a mantenere l’immobile a distanza inferiore a quella legale: senza che ciò infici, naturalmente, le facoltà della pubblica amministrazione, restando, così, salva la disciplina pubblicistica e l’osservanza degli standard d i qualsivoglia natura che il legislatore o l’amministrazione abbiano fissato, anche alla stregua, eventualmente, di normativa di fonte sovranazionale”.

Per la Suprema Cortea nulla rileva il fatto che la costruzione sia abusiva poiché l’irregolarità edilizia non ha alcun riflesso sul piano civilistico, non ostando, pertanto, alla possibilità che si perfezionino i requisiti e termini necessari ai fini dell’usucapione.

Nella fattispecie la Corte, dunque, ha ritenuto ammissibile l’acquisto per usucapione della servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella prevista dalla normativa vigente, pronunciando la seguente massima: “Deve, in definitiva, ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal codice civile o dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici: e ciò vale anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, atteso che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem”, confermando l’orientamento giurisprudenziale consolidato sul punto.[3]

[1] I comuni, nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, disciplinano l’attività edilizia.
[2]Sul punto si vedano: Corte Cass. 25863/2021; Corte Cass. n. 1395/2017; Corte Cass. n. 3979/2013; Corte Cass. n. 4240/2010.
[3]Sul punto Cass. n. 3979 del 2013; Cass. n. 1395 del 2017; Cass. n. 25863 del 2021.

USI CIVICI: LA COMPETENZA DELLE REGIONI.<br> TAR Piemonte, Sez. II, Sent. n. 1172/2022

E’ corretto l’operato di un’Amministrazione comunale che, assistita dallo Studio Legale Dal Piaz in un giudizio avanti il TAR Piemonte, ha disposto la reintegra di un terreno gravato da uso civico occupato senza titolo in base alla disciplina dettata da Legge Regionale e da altri provvedimenti emanati dall’Amministrazione regionale.

Il caso.

La vicenda giudiziaria trae origine dall’adozione di un provvedimento di reintegra di un terreno gravato da uso civico, adottato da un Comune nei confronti di una Società che lo possedeva senza titolo, a seguito dell’esito negativo del procedimento di conciliazione.

Avverso il suddetto provvedimento ha presentato ricorso al TAR Piemonte la Società che possedeva il terreno la quale, tra le altre censure, ha sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti della Legge Regionale, posto che in quest’ultima l’individuazione dei parametri da applicare per le conciliazioni stragiudiziali, poi pedissequamente osservati dal Comune, veniva rimessa ad un atto e ad un procedimento amministrativo.

Gli usi civici e la relativa disciplina.

L’uso civico è un diritto di godimento collettivo che si concreta, su beni immobili, in varie forme (caccia, pascolo, legnatico, semina), spettanti ai membri di una comunità, su terreni di proprietà pubblica o privata.

Tale figura giuridica discende prevalentemente dall’epoca medievale e da una tipologia di diritti finalizzati a garantire la sopravvivenza o il benessere di una specifica popolazione inclusa in un feudo, alla quale era consentito sfruttare in modo produttivo, ma molto limitato, aree circoscritte.

Durante il periodo fascista le servitù collettive gravanti sulle proprietà fondiarie (detti anche “usi civici”) erano viste con particolare sfavore, in quanto considerate un retaggio medioevale che ostacolava lo sviluppo dell’agricoltura moderna. Pertanto, il Legislatore dell’epoca ha inteso sciogliere tali situazioni promiscue mediante la liquidazione degli usi civici su terre private, intesa come divisione del fondo gravato dagli usi in due quote e nell’attribuire una quota in piena proprietà alla popolazione utente, lasciando l’altra parte libera dagli usi al proprietario, al fine di tutelarne la produttività e la libera circolazione; invece, era previsto il mantenimento degli usi civici gravanti sulle terre collettive adibite a bosco o destinate al pascolo.

A tal fine, è stata adottata la Legge n. 1766/1927, ancora vigente, recante la disciplina per la tutela degli usi civici, la risoluzione dei conflitti su di essi, sui demani comunali e sui domini collettivi, nonché la liquidazione degli usi civici su terre private e sulla destinazione delle terre di originaria appartenenza di comunità o pervenute a Comuni, Frazioni, associazioni in seguito ai vari procedimenti previsti dalla stessa normativa.

Per quanto d’interesse, la legittimazione, istituto disciplinato dagli artt. 9 e 10 della Legge, è volto a “sanare” la situazione antigiuridica derivante dall’occupazione di terre gravate da uso civico: pur costituendo una sorta di espropriazione di beni pubblici per un interesse privato a scapito dell’interesse pubblico, per di più compiuta a favore di chi abbia illegittimamente occupato terre del demanio civico, la legittimazione trova la sua ratio nell’esigenza di temperare il principio dell’inalienabilità e dell’imprescrittibilità dei terreni demaniali, che potrebbe produrre conseguenze inique “premiando” i coltivatori (o, comunque, i possessori) che hanno migliorato i fondi. Infatti, per poter procedere alla legittimazione dei terreni occupati sine titulo è necessario che l’occupatore abbia apportato sostanziali e permanenti migliorie, che la zona occupata non interrompa la continuità dei terreni e che l’occupazione duri almeno da dieci anni.

L’istituto della conciliazione in materia di usi civici, previsto dall’art. 29 della Legge n. 1766/1927, invece, è uno strumento di risoluzione in via extragiudiziale delle situazioni controverse in cui sorgono contestazioni riguardanti la natura giuridica dei terreni di uso civico e l’estensione dei relativi diritti di uso civico. L’esperimento del tentativo di conciliazione può essere attivato, su richiesta delle parti interessate, in ogni fase del procedimento di accertamento delle terre di uso civico. Nella maggior parte dei casi, lo strumento della conciliazione è adoperato per permettere una rapida soluzione di controversie riguardanti la reintegra ossia quando, nell’ambito del procedimento di accertamento della demanialità di un terreno occupato in assenza di titolo valido, non sussistendo le condizioni ex art. 9 Legge n. 1766/1927 per legittimare tale possesso, l’ente gestore del bene lo riacquista al patrimonio pubblico con provvedimento motivato (la reintegra) che può essere disposto “a qualunque epoca l’occupazione rimonti”.

Con la stessa Legge n. 1766/1927, inoltre, è stato istituito il Commissario liquidatore degli usi civici con poteri amministrativi e giurisdizionali: in origine tale organo aveva lo specifico compito di accertare la demanialità dei terreni, regolare la liquidazione degli usi civici, promuovere il procedimento di conciliazione, dirimere le controversie con sentenze in quanto magistrato con grado non inferiore a quello di Corte d’Appello.

Successivamente, è stato emanato il D.P.R. n. 616/1977, il cui art. 66 prevede che “Sono trasferite alle regioni tutte le funzioni amministrative relative alla liquidazione degli usi civici, allo scioglimento delle promiscuità, alla verifica delle occupazioni e alla destinazione delle terre di uso civico e delle terre provenienti da affrancazioni, ivi comprese le nomine di periti ed istruttori per il compimento delle operazioni relative e la determinazione delle loro competenze. Sono altresì trasferite le competenze attribuite al Ministero, ad altri organi periferici diversi dallo Stato, e al commissario per la liquidazione degli usi civici dalla legge 16 giugno 1972, n. 1766, dal regolamento approvato con regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332, dalla legge 10 giugno 1930, n. 1078, dal regolamento approvato con regio decreto 15 novembre 1925, n. 2180, dalla legge 16 marzo 1931, n. 377”. Quindi, come ampiamente confermato dalla giurisprudenza[1], anche in assenza di specifica normativa regionale le funzioni amministrative del Commissario agli usi civici sono state trasferite in capo alle Regioni, tranne il solo potere giurisdizionale.

La Sentenza: TAR Piemonte, Sez. II, Sent. n. 1172/2022.

Nella Sentenza n. 1172/2022 del TAR Piemonte è stato precisato che l’esperimento del tentativo di conciliazione non rappresenta espressione di una specifica funzione da attribuire alla Regione o al Commissario, ma solo una modalità alternativa di svolgimento delle funzioni attribuite ai due plessi dell’ordinamento.

Pertanto, sia le Amministrazioni regionali che i Commissari liquidatori degli usi civici possono legittimamente gestire i procedimenti conciliativi che possono rivestire carattere negoziale/amministrativo oppure giudiziale, a seconda che abbiano rispettivamente ad oggetto l’accertamento, l’affrancazione, la reintegra degli usi civici oppure le funzioni giurisdizionali.

In ossequio alle proprie competenze amministrative e normative, dunque, nel caso di specie il TAR ha affermato che “la Regione ben può disciplinare i procedimenti conciliativi con la pienezza dei poteri che l’ordinamento costituzionale le riconosce. Il fatto che il procedimento conciliativo possa essere esperito anche nel contesto di un procedimento amministrativo e concludersi con provvedimenti amministrativi, pertanto, non ne snatura la funzione; né vengono minati il principio di ragionevolezza e coerenza dell’ordinamento (art. 3 Cost.) ed il diritto di difesa, risultando impregiudicate, avanti il giudice speciale, le prerogative di cui all’art. 29 della L. n. 1766/1927”.

Pertanto, il TAR ha statuito la correttezza dell’operato dell’Amministrazione comunale che aveva disposto la reintegra, in danno della Società ricorrente, di un terreno gravato da uso civico occupato senza titolo.

[1]Cass. Civ., Sez. III, 24.02.2000 n. 2092; Corte Cost. 20.02.2007 n. 39.

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA DEL 19.04.2023 N. 3974 <br>GLI EFFETTI DELL’INOTTEMPERANZA ALL’INGIUNZIONE DI DEMOLIZIONE

Con la recente Ordinanza n. 3974 del 19.04.2023, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione connessa alle conseguenze derivanti dall’inottemperanza dell’ingiunzione di demolizione.

In particolare, i quesiti su cui dovrà pronunciarsi il superiore organo di giustizia amministrativa vertono sull’art. 31, commi 3 e 4-bis,D.P.R. 380/2001 (T.U.E. – Testo Unico Edilizia): il primo connesso all’effetto traslativo in caso di inottemperanza del privato; il secondo relativo all’irrogazione della sanzione pecuniaria.

Il caso

Con ordinanza di demolizione il Comune di Massa Lubrense ha ordinato alla ricorrente di demolire una serie di opere abusive realizzate nel fondo di sua proprietà. L’ordinanza è stata impugnata dall’odierna appellante innanzi al TAR Campania – Napoli e, nelle more del giudizio di primo grado, con altro provvedimento il Comune ha accertato l’inottemperanza all’ordine di demolizione n. 6620/2014, disponendo l’immissione in possesso dei manufatti abusivi e irrogando la sanzione pecuniaria di cui all’art. 31T.U.E.nella misura di euro 20.000,00.

La ricorrente, dunque, ha impugnato il provvedimento del Comune di Massa Lubrense innanzi al TAR, che ha confermato la legittimità dell’operato dell’Amministrazione procedente.

Di conseguenza, la ricorrente ha proposto appello avverso la pronuncia del TAR sulla base dei seguenti motivi: con il primo motivo, ha censurato il capo di sentenza con il quale il TAR, qualificando l’inottemperanza alla stregua di illecito permanente, ha ritenuto legittima l’irrogazione della sanzione; con il secondo motivo ha contestato l’illegittimità dell’acquisizione delle opere abusive al patrimonio comunale; con il terzo motivo, l’appellante ha insistito per la declaratoria di illegittimità derivata del provvedimento impugnato.

Breve introduzione normativa

In tale contesto, appare utile il richiamo dell’art. 31 T.U. Edilizia (D.P.R. 380/2001), che, come noto, al primo comma individua le ipotesi di abuso edilizio (assenza del permesso di costruire, totale difformità dal permesso di costruire rilasciato e variazioni essenziali dal permesso di costruire).

Il secondo comma della norma dispone che l’ufficio comunale, una volta accertato l’abuso edilizio, ingiunge al proprietario ed al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione. Se, poi, il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, secondo il terzo comma dello stesso articolo il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune. Successivamente all’acquisizione l’opera dovrà comunque essere demolita, salvo la sussistenza di prevalenti interessi pubblici.

Per quanto riguarda i commi successivi, l’art 31 D.P.R. 380/2001 ha subito di recente delle rilevanti modifiche ad opera del D.L. 12.09.2014 n. 133, convertito con modifiche dalla Legge 11.11. 2014 n. 164 (cd. Legge Sblocca Italia), con cui sono stati inseriti i commi 4 bis, ter e quater, per i quali, nel caso di constatata inottemperanza, l’Amministrazione è tenuta ad irrogare una sanzione pecuniaria per un importo compreso tra Euro 2.000 ed Euro 20.000, da destinare esclusivamente alla demolizione ed alla rimessione in pristino delle opere abusive, nonchè all’acquisizione e dall’attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.

Il contrasto giurisprudenziale

A seguito dell’entrata in vigore della normativa richiamata, si sono formati due orientamenti relativi alla natura ed alla finalità dell’illecito con essa sanzionato.

Con riguardo all’oggetto dell’illecito la giurisprudenza è divisa: per una parte[1], sarebbe il mancato ripristino dell’abuso edilizio; per altra parte[2] prevalente, l’art 31 comma 4bis sanzionerebbe nello specifico l’inottemperanza all’ordine di demolizione, ossia la condotta omissiva consistente nel non provvedere alla rimessione in pristino dopo aver ricevuto il relativo ordine.

Relativamente alla qualificazione dell’illecito, invece, per un primo orientamento[3], pressoché unanime, l’inottemperanza all’ordine di demolizione costituisce un illecito avente natura permanente che si protrae fino alla cessazione della situazione di illiceità, in quanto lo scadere del termine di novanta giorni dalla notifica dell’ordine di demolizione non determina il venir meno dell’obbligo di rimuovere le opere abusive. Per tale ragione, ritiene applicabile la sanzione anche agli abusi che, pur se precedenti all’entrata in vigore della norma, sono rimasti tali anche successivamente.

Conseguentemente, è stato affermato che il principio di irretroattività della legge – e delle sanzioni amministrative in particolare – non osta all’irrogazione della sanzione di cui all’art 31, comma 4 bis, citato, in relazione ad ordinanze di demolizione notificate in data antecedente rispetto alla sua entrata in vigore (settembre 2014), a condizione che l’inottemperanza all’ordine di demolizione si sia protratta anche dopo l’entrata in vigore della normativa.

Un secondo orientamento, che fa capo ad alcune sentenze di primo grado[4]ritiene, invece, che l’abuso edilizio abbia la natura di illecito istantaneo, facendone conseguire la non applicabilità della norma alle ordinanze per le quali il termine di adempimento fosse già scaduto alla entrata in vigore della norma.

L’Ordinanza n. 3974/2023 del Consiglio di Stato

Il Collegio rimettente ha ritenuto di aderire quanto alla natura dell’illecito sanzionato all’orientamento prevalente, che lo configura come illecito autonomo e distinto rispetto all’abuso edilizio di base, con l’elemento materiale costituito da una condotta omissiva specifica, consistente nel non provvedere al ripristino dello stato dei luoghi nei termini indicati nella ordinanza di demolizione.

Il Collegio nutre, invece, perplessità, quanto al fatto che tale illecito debba essere qualificato in termini di illecito permanente, anziché come illecito istantaneo con effetti permanenti, constatandosi che la scadenza del termine legale di novanta giorni comporta il consolidarsi della situazione antigiuridica, con conseguente irrilevanza dell’adempimento successivo al fine di escludere la sussistenza dell’illecito.

Non è infatti, secondo il Collegio, la condotta omissiva del privato a protrarsi oltre la scadenza del termine, ma solo i suoi effetti materiali; la cessazione dei quali, peraltro, una volta verificatosi il passaggio (di proprietà) del bene abusivo e dell’area di sedime in favore del patrimonio del Comune, non sono più sotto il controllo esclusivo del privato. Anzi, come già ricordato, parrebbe piuttosto precluso al privato, non più proprietario, intervenire (neppure presentando un’istanza di sanatoria ex art. 36 T.U.E., per la quale non sarebbe più legittimato, ma sul punto sussistono opinioni contrastanti) su di un bene che a quel punto appartiene ad altri, segnatamente al Comune.

In altre parole, la tesi favorevole alla natura di illecito permanente della condotta di inottemperanza parrebbe entrare in tensione con la costruzione concettuale e giurisprudenziale per cui, alla scadenza del termine, l’acquisizione al patrimonio comunale costituisce un effetto automatico di legge, e che l’atto del Comune avrebbe natura semplicemente dichiarativa.

Sulla scorta del dato giurisprudenziale del tutto prevalente, e visto l’effetto acquisitivo automatico, ad avviso del Collegio, per coerenza, la sanzione di cui all’art 31, comma 4 bis, non può essere irrogata in relazione all’inottemperanza ad ordinanze di demolizione notificate e “scadute” prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 133/2014, in ragione della natura istantanea dell’illecito: diversamente opinando si determinerebbe una frizione con il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative sancito dall’art 1 L. 689/1981, nonché con il generale principio sancito dall’art. 11 disp. prel. cod. civ. secondo il quale la legge non dispone che per l’avvenire.

Ad ogni modo, registrandosi, come anticipato, un contrasto circa la natura dell’illecito sanzionato che è destinato a riflettersi anche sulla questione dell’applicazione temporale della disposizione di legge, il Collegio ha ritenuto che la soluzione del primo motivo d’appello debba essere rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a..

Pertanto, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, dopo aver riepilogato gli indirizzi della giurisprudenza (non concordi) ed aver espresso il suo orientamento, con Ordinanza n. 3974 del 19.04.2023 ha deciso di rimettere all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:

1) se, e in che limiti, l’inottemperanza alla ingiunzione di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, abbia effetti traslativi automatici che si verificano alla scadenza del termine di novanta giorni assegnato al privato per la demolizione;

2) se l’art. 31, comma 4 bis, del D.P.R. n. 380/2001sanzioni l’illecito costituito dall’abuso edilizio o, invece, un illecito autonomo di natura omissiva, id est l’inottemperanza alla ingiunzione di demolizione;

3) se l’inottemperanza all’ordine di demolizione configuri un illecito permanente ovvero un illecito istantaneo ad effetti eventualmente permanenti;

4) se la sanzione di cui all’art 31, comma 4 bis, D.P.R. 380/2001 possa essere irrogata nei confronti di soggetti che hanno ricevuto la notifica dell’ordinanza di demolizione prima dell’entrata in vigore della L. n. 164 in data 11.11.2014, quando il termine di novanta giorni, di cui all’art. 31, comma 3, risulti a tale data già scaduto e detti soggetti più non possano demolire un bene non più loro, sempre sul presupposto che a tale data la perdita della proprietà in favore del Comune costituisca un effetto del tutto automatico.

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Consiglio di Stato, sez. II, 14/02/2023 n. 1537; T.A.R. Calabria, sez. II, n. 406/2022; Consiglio di Stato, sez. VI, 16/04/2019 n.2484; Consiglio di Stato, sez. VI, 3/1/2019 n. 85; 4/6/2018 n. 3351; 29/1/2016 n. 357; Consiglio di Stato, sez. VI, 09/08/2022 n.7023; Consiglio di Stato, sez. VI, 16 aprile 2019 n. 2484.
[2]Consiglio di Stato, sez. VI, 24/07/2019 n.5242; Consiglio di Stato, sez. VI, 25/07/2022 n.6519.
[3]Ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 24/07/2019 n.5242; Consiglio di Stato, sez. VII, 28/12/2022 n.11397; Consiglio di Stato, sez. VI, 25/07/2022 n.6519). In senso adesivo a tale ricostruzione si segnala anche la decisione della Corte di Cassazione Civile, sez. II, 19/07/2022, n.22646.
[4]In particolare la sentenza del TAR per la Sicilia – Palermo n. 189 del 22 gennaio 2020, e la sentenza del TAR per il Piemonte n. 458 del 27 maggio 221.

RILEVANZA PENALE DEGLI INTERVENTI EDILIZI DI MANUTENZIONE STRAORDINARIA

Con la Sentenza n. 14964 del 11.04.2023 la Corte di Cassazione, Sezione III Penale, affronta il tema della rilevanza dell’ampliamento della categoria degli interventi di manutenzione straordinaria a seguito delle modifiche al c.d. “Testo Unico Edilizia” introdotte dall’art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, del  D.L. n. 133 del 2014[1] ai fini della configurabilità dei reati urbanistici.

 La disciplina degli interventi edilizi e le relative sanzioni penali

È necessario, preliminarmente, esaminare le norme del D.P.R. n. 380/2001 (recante il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”) che riguardano gli interventi edilizi e, in particolare, la manutenzione straordinaria degli immobili.

1) Ai sensi del novellato art. 3, comma 1, lett. b), gli interventi di manutenzione straordinaria sono “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico. Nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso. Nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono comprese anche le modifiche ai prospetti degli edifici legittimamente realizzati necessarie per mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio ovvero per l’accesso allo stesso, che non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio, purché l’intervento risulti conforme alla vigente disciplina urbanistica ed edilizia e non abbia ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

2) Tali interventi di manutenzione straordinaria, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. a), “Sono realizzabili mediante la segnalazione certificata di inizio di attività di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.

3) Invece, l’art. 10, comma 1, lett. c), subordina all’ottenimento del permesso di costruire “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, , e, inoltre, gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino la demolizione e ricostruzione di edifici situati in aree tutelate ai sensi degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142 del codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, o il ripristino di edifici, crollati o demoliti, situati nelle medesime aree, in entrambi i casi ove siano previste modifiche della sagoma o dei prospetti o del sedime o delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente oppure siano previsti incrementi di volumetria”.

4) Rileva, poi, il disposto dell’art. 44, comma 1. lett. b), che sanziona penalmente (con “l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 5164 a 51645 euro”) l’esecuzione di lavori in totale difformità o in assenza del permesso di costruire.

Invero, l’oggetto giuridico della tutela penale apprestata dalla predetta norma è l’esigenza di garantire il controllo pubblico preventivo sul territorio nazionale volto ad ottenere un corretto svolgimento dell’attività edilizia.

* * *

Quindi, dal combinato disposto dei citati articoli del “Testo Unico Edilizia” (T.U.E.), in caso di interventi edilizi possono verificarsi due ipotesi.

  1. Il mutamento di destinazione d’uso di un immobile senza il preventivo rilascio del permesso di costruire integra il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b). Infatti, l’opera si configura come “intervento di ristrutturazione edilizia” che, ai sensi del citato art. 10, comma 1. lett. c), necessita il previo ottenimento del permesso di costruire.
  2. Invece, se l’intervento edilizio, ancorché consistente in frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere che comportano la variazione di superficie o del carico urbanistico, non modifica la volumetria complessiva dell’immobile e non ne muta la destinazione d’uso, ricade nella previsione di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), il cui contenuto, si ripete, è stato ampliato dall’art. 17 comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, del L. n. 133 del 2014. Posto che ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. a) del T.U.E. è esclusa la necessità di ottenere un titolo abilitativo per l’esecuzione di tali interventi edilizi, il mancato conseguimento del permesso di costruire non integra il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b).

 Il fatto

 A seguito della realizzazione di tramezzature non autorizzate, al fine di ricavare più stanze, nell’immobile di proprietà dell’imputato, il Tribunale di Padova aveva condannato quest’ultimo per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001.

Avverso tale pronuncia l’interessato ha proposto ricorso per Cassazione lamentando, in particolare, il vizio di violazione di legge, “perché si trattava di lavori per cui non erano necessarie autorizzazioni”.

La Suprema Corte, con la recente Sentenza n. 14964 in data 11.04.2023 ha ritenuto fondato il motivo di ricorso, ed ha annullato senza rinvio la statuizione impugnata perché il fatto non costituisce reato.

In particolare, la Corte ha accertato l’esecuzione nel caso specifico di lavori che hanno importato la creazione di una nuova stanza nell’immobile ottenuta dalla ripartizione di un vano, nonché l’effettuazione di modifiche anche all’impianto elettrico ed alla pavimentazione.

Tuttavia, “Tale tipologia di lavori non è assoggettata a permesso a costruire se non vi sia un mutamento della volumetria complessiva né dell’originaria destinazione d’uso dell’immobile. Sul punto merita, infatti, di essere ribadito quanto più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte[2], per cui in tema di reati urbanistici, a seguito delle modifiche apportate dal D.L. n. 133 del 2014art. 17 comma 1 lett. b), n. 1 e 2, con v. in L. n. 164 del 2014, deve ritenersi ampliata la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria, comprensiva anche del frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti una variazione di superficie o del carico urbanistico, per i quali pertanto, ove rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d’uso, non è più necessario il permesso di costruire.

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. b), nn. 1 e 2, del D.L 133/2014sono state apportate le seguenti modificazioni al D.P.R. n. 380/2001: “all’articolo 3 (L), comma 1, lettera b):
1) le parole: “i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari” sono sostituite dalle seguenti:la volumetria com-plessiva degli edifici”;
2) è aggiunto, infine, il seguente periodo:
Nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione di uso;”.
[2]Ex multis, Cass. Pen., Sez. III, Sentenza n. 31618/2015

USUCAPIBILITA’ DEL BENE OGGETTO DI DECRETO DI ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’ <br>Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 651 del 12.01.2023

Con la Sentenza n. 651 del 12.01.2023 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione risolvono la questione riguardante gli effetti del decreto di espropriazione cui non segua l’effettiva immissione in possesso da parte della Pubblica Amministrazione o, comunque, una condotta realizzativa delle opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità.

In particolare, la giurisprudenza si interroga se sia automatica la perdita dell’animus possidendi in capo all’occupante con conseguente interruzione di un pregresso possesso utile ad usucapionem. ovvero se il possesso continui a sussistere in capo allo stesso, che potrà riacquistare la proprietà del bene per usucapione ancorché oggetto di espropriazione.

Sul punto, infatti, esisteva un marcato contrasto giurisprudenziale esaminato nell’articolo del 25.10.2022 (https://bit.ly/3IXkNRK), cui si rimanda, che ha giustificato la rimessione della questione al Primo Presidente della Suprema Corte (C. Cass., Sez. II, Ordinanza interlocutoria n. 19758/2022)[1].

  1. La decisione della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte, a Sezioni Unite, condivide l’orientamento giurisprudenziale contrario alla usucapibilità del bene a favore del proprietario espropriato che rimane nella disponibilità del bene stesso, il quale quindi può vantare una mera detenzione precaria non utile ad usucapionem.

Tale soluzione è applicabile, secondo il Collegio, sia alle controversie soggette al regime previgente all’entrata in vigore del Testo Unico degli espropri, disciplinate dalla L. n. 2359/1985 (a), sia alle controversie soggette alle disposizioni del predetto Testo Unico (D.Lgs. n. 327/2001 entrato in vigore il 30 giugno 2003) (b).

a) Decreto di esproprio per pubblica utilità emesso in data antecedente al 30 giugno 2003.

All’emissione del decreto di esproprio per pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza (e, quindi, non in presenza di una mera occupazione d’urgenza del bene da parte della Pubblica Amministrazione, prima o in mancanza di un provvedimento espropriativo) consegue l’automatica appartenenza del bene oggetto dell’atto amministrativo al patrimonio indisponibile, “prima e indipendentemente dalla realizzazione dell’opera” cui il decreto è preordinato.

Tale effetto è confermato dalle numerose disposizioni legislative citate nella Sentenza in commento: “si vedano gli artt. 42-bis, comma 1, del t.u. del 2001, costituente un “procedimento espropriativo semplificato”; della L. 22 ottobre 1971,n.865art.21, comma 2, e 35, comma 3, modificativa della L. 18 aprile 1962 n. 167, in tema di edilizia residenziale pubblica, applicabile anche agli edifici scolastici e alle aree verdi, e le numerose leggi regionali che prevedono l’acquisizione degli immobili espropriati al patrimonio indisponibile del Comune”.

Al proprietario espropriato, a fronte della totale inerzia della Pubblica Amministrazione protratta nel tempo e del venir meno della dichiarazione di pubblica utilità, è tutt’al più riconosciuto il diritto alla retrocessione disciplinato nel Capo VII della Legge n. 2359/1985, che gli consente di riacquistare sia la proprietà sia il possesso del bene tramite sentenza costitutiva e previo pagamento del relativo prezzo.

Pertanto, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “nelle controversie soggette al regime normativo antecedente all’entrata in vigore del t.u. n. 327 del 2001, nelle quali la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta prima del 30 giugno 2003, nel caso in cui al decreto di esproprio validamente emesso (come è incontestato nella specie) – che è idoneo a far acquisire al beneficiario dell’espropriazione la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di fatto e di diritto con essa incompatibile – non sia seguita l’immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva del decreto comportano la perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto sul bene – se egli continui ad occuparlo – si configura come una mera detenzione, con la conseguenza che la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile a suo favore “ad usucapionem”, necessita di un atto di interversiopossessionis da esercitare in partecipata contrapposizione al nuovo proprietario, dal quale sia consentito desumere che egli abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Resta fermo il diritto dell’espropriato di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene”.

b) Decreto di esproprio per pubblica utilità emesso in data posteriore al 30 giugno 2003.

La Suprema Corte esclude altresì l’usucapibilità del bene espropriato mediante decreto soggetto ratione temporis al Testo Unico degli espropri non seguito da alcun atto dell’espropriante di materiale apprensione, ma per ragioni parzialmente differenti rispetto a quelle appena enunciate.

Infatti, ai sensi dell’art. 24, comma 1, del citato Testo Unico, l’immissione in possesso del beneficiario dell’espropriazione – mediante redazione del prescritto verbale – deve avvenire nel termine perentorio di due anni dall’emissione del decreto di esproprio.

In caso contrario, “il decreto di esproprio […] diventa inefficace e la proprietà del bene si riespande immediatamente in capo al proprietario, perdendo rilevanza la questione dell’usucapione, salvo il potere dell’autorità espropriante di emanare una nuova dichiarazione di pubblica utilità entro i successivi tre anni (art. 24, comma 7), nel qual caso dovrà essere emesso un nuovo decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1”.

Quindi, anche in questo caso, se il decreto di esproprio è tempestivamente eseguito, l’occupazione del bene da parte del precedente proprietario realizza una situazione di mero fatto non configurabile come possesso utile ai fini dell’usucapione.

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[1]Orientamento giurisprudenziale che riconosce il possesso in capo all’occupante: “in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutumpossessorium, poiché – con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità – il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell’espropriato/possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l’espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell’animus rem sibihabendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell’usucapione (a ciò non ostando, tra l’altro, il disposto della L. n. 2359 del 1865, artt. 52 e 63 ) tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti né l’immissione in possesso, né l’attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell’espropriante, del tutto irrilevante appalesan-dosi, ai fini de quibus, l’acquisita consapevolezza dell’esistenza dell’altrui diritto dominicale” (testualmente, C. Cass., Sez. I, Sentenza n. 5293/2000; ex multis: C. Cass., Sentenze nn. 5996/2014, 25594/2013, n. 13558/1999 e, implicitamente, n. 3836/1983.
Orientamento giurisprudenziale che non riconosce il possesso in capo all’occupante: “il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di diritto o di fatto con essa in-compatibile e, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continuino ad esercitare sulla cosa un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica (o conoscenza) del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è neces-sario un atto di interversiopossessionis [ex art. 1141 c.c.]” (testualmente, C. Cass., Sez. I, Sentenza n. 6742 del 2014; ex multis: C. Cass., Sentenze nn. 13669/2007, 12023/2004, 23850/2018, 6966/1988)

LA RESPONSABILITA’ PER DANNO AMBIENTALE <br> Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza in data 01.02.2023 n. 3077

Con la sentenza n. 3077 del 01.02.2023, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione si sono pronunciate su una questione di estremo interesse e attualità, attinente alla tematica della responsabilità per danno ambientale.

Nel caso in esame, la Società ricorrente aveva costruito nel 2001, con gestione fino al 2003, una discarica per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani (RSU) presso una cava, utilizzata come sito di stoccaggio dei rifiuti raccolti. A seguito di accertamenti condotti da ARPA per l’ispezione dello stato della falda acquifera, era emerso il superamento dei valori-limite di plurime sostanze contaminanti (con superamento delle CSC: concentrazioni soglia di contaminazione) ed alte concentrazioni nocive. Conseguentemente, il Ministero dell’Ambiente aveva ingiunto alla Società l’attivazione di interventi di messa in sicurezza d’emergenza (m.i.s.e.) delle falde acquifere contaminate, unitamente all’adozione di misure di prevenzione e di bonifica dei suoli e della falda, a pena di interventi sostitutivi ex D.Lgs. 152/2006(Codice dell’Ambiente), con iscrizione di onere reale sull’immobile ed accertamento di danno ambientale.

Tali provvedimenti erano stati impugnati dalla Società ricorrente (prima avanti al TAR e, successivamente innanzi al TSAP: Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche), contestando la violazione di plurime disposizioni del D.Lgs. 152/2006 e, soprattutto, censurando l’estraneità del titolo ad ottemperare (posto che la Società non si riteneva responsabile del danno ambientale) nonché l’omessa dovuta identificazione del responsabile della contaminazione e l’estraneità ad ogni responsabilità, dovendo gli eventi ricondursi a fenomeni d’inquinamento non repentini ma diffusi in zona.

Il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, pur condividendo le conclusioni cui era giunto il Giudice Amministrativo circa il difetto di dimostrazione che il processo d’inquinamento dei terreni fosse iniziato con l’insediamento in loco della Società, concludeva che l’onere di adottare le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.) gravasse anche sul proprietario o sul detentore qualificato di un sito, nel contesto di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, prescindendo dall’accertamento del dolo o della colpa. Al riguardo veniva, in particolare, valorizzata la portata del principio “chi inquina paga” del diritto UE, in base al quale è sufficiente la materiale causazione del danno o del pericolo ambientale secondo il criterio di responsabilità oggettiva (pur se non di posizione).

Avverso la predetta sentenza la Società proponeva ricorso in Cassazione. La questione devoluta all’esame delle Sezioni Unite involge “la contestazione nella vicenda del principio ‘chi inquina paga’ di cui alla Direttiva 2004/35/CE e comunque di ogni responsabilità ambientale, anche a titolo oggettivo o prescindendo da una condotta causativa del danno, in capo al proprietario/gestore richiesto di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza, in difetto della individuazione del responsabile della potenziale contaminazione”.

IL PRINCIPIO “CHI INQUINA PAGA”

Con i primi due motivi di ricorso, ritenuti fondati dalla Suprema Corte, la Società ricorrente contestava l’applicazione alla vicenda del principio “chi inquina paga” (in base al quale sul proprietario/gestore grava comunque ogni responsabilità di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza: m.i.s.e.) e l’erronea mancata individuazione del responsabile della potenziale contaminazione.

Decisiva, secondo il Collegio, è risultata la constatazione secondo cui, nel caso in esame, risultava pacifico che in capo alla Società non fosse intervenuta la dimostrazione, ad opera delle competenti Amministrazioni, di alcuna correlazione causale tra l’attività svolta in situ e, per via di percolazione dei rifiuti trattati, la contaminazione del sottosuolo e della falda acquifera.

A partire da tale accertamento, la Suprema Corte rileva, pertanto, che il titolo che ha giustificato per il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche la legittimità delle prescrizioni adottate dalla P.A., “pur nel formale distanziamento dalla responsabilità da posizione”, è consistito in una peculiare relazione della Società ricorrente con il sito (la proprietà o la detenzione qualificata) secondo il criterio di responsabilità oggettiva ritenuto conforme alla Direttiva 2004/35/CE[1].

In maniera incisiva, le Sezioni Unite contestano tale conclusione, ritenuta non condivisibile avendo riguardo alle acquisizioni prodotte dal dialogo tra giurisprudenza nazionale, amministrativa ed europea in relazione al principio “chi inquina paga”.

Fondamentale nell’impianto motivazionale della pronuncia in esame risulta, invero, l’analisi della disciplina multilivello in tema di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, all’interno della quale si colloca il principio “chi inquina paga” (artt. 1 e 7 Allegato II della Direttiva 2004/35/CE ed art. 191 TFUE).

In base a tale principio “l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale” (considerato 2 della Direttiva 2004/35/CE).

La ratio del principio “chi inquina paga”, come rilevato nell’analisi economica di tale sistema, viene dunque individuata nel fatto che  “imporre al soggetto inquinatore l’obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l’abbia evitato o rimosso, significa pertanto addossare (…) le esternalità negative (conseguenti alla produzione o al commercio di beni e servizi) a carico del soggetto cui sia riferibile l’attività, evitando alterazioni di mercato (per qualità dei prodotti e livelli di concorrenza), senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall’ente pubblico; viene così scongiurato ogni scenario di alternativa monetizzazione dell’inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘chi inquina paga’ nella riparazione più diretta del danno ambientale (nei contesti di acque, terreno e biodiversità, i soli dell’art.2 Direttiva), ad opera dell’autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell’ente pubblico” (par. 12 della sentenza n. 3077 del 01.02.2023).

Se, dunque, appare chiara la definizione e la portata del principio in esame, molto più controverso appare il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, essendo in dubbio se occorra valorizzare un modello di responsabilità di tipo oggettivo (quantunque la più efficace a tutela dell’ambiente) o se, diversamente, debba prevalere un criterio di imputazione psicologico della relativa condotta. Obiettivo dell’indagine condotta nella sentenza in commento è, dunque, comprendere se l’interpretazione dell’intero assetto normativo italiano, conseguente alla progressiva armonizzazione con la Direttiva 2004/35/CE, sia di per sé idonea a giustificare una responsabilità oggettiva del proprietario in quanto tale.

Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, dalla lettura sistematica e integrata delle disposizioni del D.Lgs. 152/2006 (Codice dell’Ambiente) e della Direttiva Europea 2004/35/CE non è possibile rinvenire alcun obbligo diretto ed esplicito del proprietario, ove non sia autore della condotta contaminante, ad adottare interventi di messa in sicurezza di emergenza. Particolarmente rilevante, a questo proposito, deve ritenersi il disposto di cui all’art. 311 del D.Lgs. 152/2006, che fissa la responsabilità oggettiva di chi gestisce specifiche attività professionali elencate e quella soggettiva (per dolo o colpa) in capo “a chiunque altro cagioni un danno ambientale”. Inoltre, al ricorrere di specifici presupposti, l’art. 308 esclude, a carico dello stesso operatore esercente un’attività professionale di rilevanza ambientale, i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e di ripristino qualora esso dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo o nelle ipotesi di cd. inquinamento diffuso.

L’azione di risarcimento del danno ambientale, inteso come bene pubblico di carattere unitario, costituente autonomo diritto fondamentale di rilievo costituzionale, oggetto di tutela da parte del Giudice Ordinario, diviene così un’azione di reintegrazione in forma specifica, di competenza esclusiva del Ministero dell’Ambiente.

Da un’attenta analisi del quadro normativo e della giurisprudenza europea e nazionale, la Suprema Corte giunge dunque alla conclusione secondo cui “va esclusa una indicazione comunitaria alla riparazione del danno (…) a carico di chi non abbia svolto l’attività professionale di operatore, bensì venga chiamato a rispondervi nella veste di titolare di diritti dominicali o addirittura, come nel caso, con nesso eziologico escluso dallo stesso giudice dell’accertata condotta, non potendo la mera enunciazione di indizi di posizione, per un’attività non classificata dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 a rischio d’inquinamento, sostituire di per sé la prova del predetto necessario nesso causale” (par. 16 della Sentenza).

RIPARTIZIONE DI RESPONSABILITA’ TRA RESPONSABILE DELL’INQUINAMENTO E PROPRIETARIO INCOLPEVOLE DEL SITO

All’interno dell’analisi, in chiave sistematica, della responsabilità per danno ambientale offerta dalle Sezioni Unite, centrale rilevanza assume la distinzione tra i doveri incombenti sul proprietario incolpevole dell’inquinamento ed il responsabile dell’inquinamento.

Gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto previsto dall’art. 253 del Codice dell’Ambiente in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari. Il proprietario, in tale quadro, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione idonee a contrastare un evento che abbia creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile, secondo il canone causale civilistico, di verificazione di un danno sanitario o ambientale, al fine di impedire o minimizzare tale minaccia. In tale logica, “le norme contemplanti il proprietario (artt. 245 e 244 cod. amb.) dovrebbero essere rilette come un coinvolgimento per un verso doveroso (….) per l’attuazione, senza distinzione, di tutte le misure di prevenzione (…) e, per altro verso, pienamente partecipativo dell’iter procedimentale preventivo” (par. 25 della sentenza).

Dalla figura del proprietario incolpevole deve essere tenuta nettamente distinta la figura del “ben diverso” responsabile dell’inquinamento, obbligato in modo più stringente e sempre, ai sensi dell’art. 242 del D.Lgs. 152/2006, già nelle prime 24 ore, ad adottare le  misure necessarie di prevenzione, le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.)[2] e di bonifica del sito inquinato. L’Amministrazione, dunque, non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di realizzare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati alle previsioni di cui all’art. 253, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare, oltre che all’adozione delle sole necessarie misure di prevenzione (par. 32 della sentenza).

Infine, anche alla luce della novellazione degli artt. 9 e 41 della Cost. attuata con la Legge 11 febbraio 2022 n. 1, viene considerato non irragionevole il sistema distributivo della responsabilità ambientale tuttora vigente, imperniato proprio sul perseguimento della riparazione e fino alla estrema attuazione dell’intervento pubblico sostitutivo rispetto all’inerzia o alla non individuazione del responsabile.

Sotto il profilo civilistico, l’inapplicabilità degli artt. 2050 c.c. “Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose” e 2051 c.c. “Danno cagionato da cose in custodia” discende direttamente dalla natura interamente speciale propria del Codice dell’Ambiente; a seguito dell’introduzione della Direttiva 2004/35/CE, come chiarito dalle Sezioni Unite, si è di fronte ad un corpo normativo appositamente dedicato alla tutela dell’illecito ecologico slegato dal sistema regolativo dell’illecito civile ordinario di cui agli artt. 2043 e ss. c.c..

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La sentenza in esame può ritenersi certamente apprezzabile nella misura in cui, valorizzando una lettura sistematica ed integrata della normativa europea e nazionale, nonché gli apporti della giurisprudenza civile, amministrativa ed europea, afferma che il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, secondo il principio “chi inquina paga”, non può prescindere dall’accertamento del nesso causale tra l’attività posta in essere dall’operatore e l’inquinamento, nonché dall’accertamento del necessario elemento psicologico (colpa o dolo del responsabile dell’inquinamento).

In questa logica, sicuramente condivisibile appare la constatazione secondo cui un quadro altrimenti vago circa l’accertamento di quali siano gli obblighi di bonifica stabiliti per legge o per ordine dei Giudici e delle Amministrazioni costituisce circostanza ostativa ad un corretto funzionamento circolare del sistema delle tutele ambientali (cfr. par. 37 della sentenza).

Al tempo stesso, dal punto di vista operativo, sembra possibile intravedere qualche margine di incertezza in tutti quei casi (pur presi espressamente in considerazione dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento) in cui non sia possibile identificare con precisione il responsabile dell’inquinamento risultando, al contrario, difficile ricostruire la catena causale fra danni e attività di plurimi operatori che si sono succeduti nella gestione di uno stesso sito. Seguendo la soluzione adottata dalle Sezioni Unite, sussiste il rischio che talvolta siano le sole Amministrazioni a dover far fronte ai costi, anche ingenti, del risanamento ambientale.

Ciononostante, la sentenza in esame costituisce un intervento di estremo interesse per la portata sistematica delle sue acquisizioni, condotte alla luce di una disamina integrata della normativa e della giurisprudenza europea e nazionale (civile e amministrativa) in tema di responsabilità per danno ambientale.

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale
[2]Nella Sentenza viene evidenziata la distinzione tra misure di prevenzione, definite come “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” e le misure di sicurezza di emergenza, che includono “ogni intervento immediato o a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lettera t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente”.

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