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INCOSTITUZIONALITA’ LEGGE REGIONE PIEMONTE 7/2022 (II parte).<br> LA VALIDITA’ DEI TITOLI EDILIZI MEDIO TEMPORE FORMATI

Nel precedente articolo[1] sono state trattate le censure accolte nella Sentenza n. 119 del 04.07.2024, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune disposizioni della Legge della Regione Piemonte 31.05.2022 n. 7 poiché in contrasto con le norme emanate dal Legislatore nazionale. 

Nel presente articolo, invece, si esaminano le principali problematiche relative alla validità dei titoli perfezionati durante il periodo di efficacia delle norme dichiarate costituzionalmente illegittime e la possibile reviviscenza della disciplina previgente (di cui alla L.R. n. 16 del 2018).

I. L’EFFICACIA DELLA DECLARATORIA DI INCOSTITUZIONALITA’
SUI PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI

Il tema afferente l’efficacia delle norme dichiarate incostituzionali trova i principali riferimenti normativi all’art. 136 Cost. (in base al quale “quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”) nonché all’art. 30 della Legge n. 87 in data 11.03.1953 (in base al quale “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”). Dal combinato disposto delle norme suindicate emerge chiaramente che le decisioni di incostituzionalità producono effetti erga omnes ed ex tunc, cioè con effetto retroattivo, seppur con le precisazioni di seguito indicate.

In proposito, è utile richiamare la nota del Consigliere presso la Corte Costituzionale[2] Dott. Danilo Diaco, il quale ha avuto modo di osservare che “le decisioni con le quali una legge viene dichiarata in contrasto con la Costituzione, a differenza di quanto accade con le pronunce di rigetto, producono non solo effetti erga omnes, ma anche ex tunc, cioè retroattivi (salvo quanto si dirà nel prosieguo del lavoro). Nel nostro sistema di giustizia costituzionale sembra ormai costituire jus receptum l’affermazione secondo la quale tali pronunce producono effetti tanto per il passato quanto per il futuro. Ciononostante, vi sono casi in cui “gli effetti temporali che dovrebbero derivare dalle pronunce appaiono, alla stessa Corte, eccessivi (tanto per il passato quanto per il futuro). Da un lato, è necessario garantire, allora, i soggetti danneggiati dalla disciplina riconosciuta in contrasto con la Costituzione senza ledere i diritti acquisiti in passato da altri soggetti che potrebbero subire effetti pregiudizievoli in caso di disapplicazione generalizzata della normativa dichiarata incostituzionale. […] Procedendo nella trattazione dei possibili limiti agli effetti della pronuncia di incostituzionalità, sembra opportuno ribadire che la loro efficacia retroattiva non è illimitata ma presuppone che i rapporti su cui la decisione può produrre effetti siano ancora pendenti, cioè suscettibili di essere azionati in un giudizio. Laddove tali rapporti siano esauriti, invece, l’incostituzionalità non produce alcun effetto, prevalendo ragioni di certezza del diritto sullo stesso principio di legalità costituzionale.

Pertanto, il problema della legittimità dei rapporti sorti durante la vigenza della norma incostituzionale passa necessariamente dalla valutazione circa la definitività del rapporto stesso. Sul punto, il Consigliere ha osservato che ““i principali meccanismi che determinano la chiusura di un rapporto giuridico, tale da impedirne ogni possibile sua azionabilità in giudizio, sono rappresentati dal giudicato, il quale, fissando definitivamente quanto statuito nella sentenza, impedisce ogni ipotesi di ulteriore impugnazione; dalla prescrizione del diritto, che ne determina l’estinzione quando il titolare non lo esercita per un certo periodo di tempo; dalla decadenza, che determina la perdita della possibilità di esercitare un diritto per non aver compiuto un determinato atto entro uno specifico termine fissato; dal principio del ‘tempus regit actum’”; dall’inoppugnabilità dell’atto amministrativo”.

Tali principi sono stati affermati già dalla giurisprudenza più risalente, la quale ha escluso il regime della inesistenza o della nullità dei provvedimenti amministrativi adottati sulla base di norme successivamente dichiarate incostituzionali, affermando che nei confronti dei medesimi si produca una invalidità sopravvenuta (o derivata) che soggiace al regime processuale della annullabilità (Consiglio di Stato, Ad. Plen., Sent. n. 8 in data 10.04.1963). Pertanto, la declaratoria di incostituzionalità della norma posta alla base dell’atto amministrativo non comporta la caducazione automatica del medesimo[3], ma è necessario che l’atto sia rimosso da un provvedimento adottato in autotutela dalla P.A., soggetto ai limiti prescritti dall’art. 21-novies della L. 241/1990, ovvero da un provvedimento del Giudice amministrativo. In altri termini, se l ‘atto non è impugnato, o è impugnato fuori dai termini, ed è decorso il termine per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela della P.A., lo stesso rimarrà produttivo di effetti giuridici. La tesi in argomento ha il pregio di individuare un equo bilanciamento tra esigenze di certezza del diritto e l’esigenza, parimenti meritevole di rispetto, di ripristino della legalità costituzionale.

Quanto appena esposto consente di affermare l’importante principio, ormai pacifico in giurisprudenza, in base al quale “in forza dell’art. 136 Cost. e dell’art.  30, l. 87/1953, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Consulta, la norma dichiarata incostituzionale non è più applicabile e gli effetti della declaratoria di incostituzionalità si estendono a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti al momento della decisione della Corte, rimanendone esclusi solo i cc.dd. rapporti già esauriti, ossia quei rapporti che abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate e intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, nonché del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale” (TAR Lombardia – Milano, Sez. III, Sent. n. 1507 in data 17.05.2024)[4].

In definitiva, trovando applicazione il regime dell’annullabilità dell’atto amministrativo che costituisca l’estrinsecazione della norma dichiarata illegittima, è evidente che gli effetti dell’incostituzionalità della norma presupposta sono suscettibili di incidere sull’atto solo ove il rapporto non è già esaurito, ossia censurabile, sulla base di quanto previsto dall’ordinamento.

II. LA VALIDITA’ DEI TITOLI EDILIZI

I principi suesposti trovano senz’altro applicazione anche in materia edilizia, seppur con talune peculiarità giustificate dalla natura dell’illecito, nonché dalle conseguenze, anche economiche, che l’illegittimità di un titolo edilizio può produrre sul privato, il quale vanta un legittimo affidamento sulla validità degli atti amministrativi e delle norme che giustificano l’agire pubblico.

Sennonché, la tutela del legittimo affidamento del privato non può essere affermata aprioristicamente, in quanto verrebbe a manifestarsi il rischio concreto di giustificare condotte potenzialmente opportunistiche del legislatore regionale che, nel perseguire interessi locali contrastanti con principi e linee guida nazionali, potrebbe teoricamente adottare norme consapevolmente incostituzionali (per contrasto con la disciplina nazionale) al fine di consentire interventi edilizi nel periodo necessario alla Consulta per pronunciare il provvedimento caducatorio, secondo le tempistiche che un giudizio di legittimità richiede. Ecco, allora, che appare necessario uno sforzo dogmatico ed ermeneutico aggiuntivo, che tenga conto dei principi dell’ordinamento interamente considerato.

Il problema, invero, è già stato oggetto di riflessione da parte della giurisprudenza amministrativa, chiamata a pronunciarsi in diverse occasioni sui limiti di legittimità dei titoli edilizi fondati su norme costituzionalmente illegittime. In particolare, secondo alcune pronunce, rileva l’individuazione del momento in cui un titolo edilizio può definirsi “definitivo”. Ad esempio, non è revocabile in dubbio la natura non definitiva di un rapporto in pendenza della domanda volta ad ottenere un titolo edilizio. In tali termini, è stata affermata la legittimità del “diniego di permesso di costruire in sanatoria che sia stato adottato sul presupposto dell’assoluta inapplicabilità del comma 4-bis dell’art. 12 della L.R. Campania n. 19 del 2009, perché norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza della Corte Costituzionale n. 107 del 2017, ove il rapporto doveva ritenersi a tale momento ancora pendente, per essere l’istanza di permesso di costruire in sanatoria non ancora esitata” (TAR Campania, Sez. II, Sent. 670 in data 30.01.2023).

Allo stesso modo, non sembra contestabile la natura non definitiva di una SCIA prima che siano decorsi i 30 giorni richiesti per il consolidamento degli effetti cui è diretta.

 Inoltre, deve ritenersi non ancora esaurito il rapporto afferente ad un titolo edilizio che sia soggetto al controllo di legittimità innanzi l’autorità giudiziaria. Infatti, “il giudice del caso concreto è senz’altro tenuto ad annullare l’atto che la parte ricorrente ha sottoposto al suo sindacato giurisdizionale, in ragione della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità delle norme che ne hanno permesso l’adozione”, a prescindere “dalla prospettazione, con apposito motivo, della questione di incostituzionalità della norma da parte del ricorrente” (TAR Puglia, Sez. III, Sent. 1056 in data 01.08.2023).

È senz’altro da escludere, poi, che il rapporto sia esaurito allorquando sussista in capo alla Pubblica Amministrazione il potere di annullare in autotutela il titolo edilizio, sia esso un permesso di costruire o una SCIA. Secondo una parte della giurisprudenza l’Amministrazione comunale non avrebbe l’obbligo di esercitare tale potere a seguito della sentenza di incostituzionalità[5], affermando la natura discrezionale del potere di autotutela anche in relazione a provvedimenti amministrativi adottati sulla base di norme successivamente dichiarate incostituzionali e quindi negando la configurabilità di un obbligo di annullamento.

Sempre sul tema della definitività del titolo edilizio, applicando i principi richiamati nel precedente paragrafo è stato osservato che “con riguardo agli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale sui titoli edilizi o – meglio – sui rapporti giuridici nascenti dai titoli stessi (permesso di costruire, oppure DIA o SCIA, anche se questi ultimi non costituiscono provvedimenti amministrativi), è opinione diffusa, anche in dottrina, che le sentenze come quella di cui è causa possano esplicare effetti anche su titoli già rilasciati, purché l’attività edilizia sia ancora in corso e non siano ultimati i lavori assentiti, trattandosi di rapporti giuridici pendenti e non ancora esauriti o definiti (giacché solo in tale ultima ipotesi le sentenze del Giudice delle leggi non potrebbero trovare applicazione)” (TAR Lombardia, Sez. II, Sent. n. 2147 in data 27.07.2012).

Invece, il Consiglio di Stato ha radicalmente escluso ogni rilevanza della “definitività” del titolo, posto che “la realizzazione di opere edilizie, di per sé, non è idonea a configurare un rapporto esaurito, in quanto, da un lato, la legittimità delle relative opere non è ancora accertata con sentenza passata in giudicata, dall’altro, non si ravvisa alcuna ipotesi di decadenza dell’Amministrazione dal potere di vigilanza in materia urbanistica ed edilizia, non soggetto a limiti temporali per il suo esercizio. La repressione degli illeciti urbanistico-edilizi costituisce, infatti, attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della commissione dell’abuso, in ragione del carattere permanente rinvenibile nell’illecito edilizio e dell’immanenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine violato, il quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al mantenimento dell’opera (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 12 marzo 2020, n. 1765)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. n. 2441 in data 04.04.2022). Quindi, unico limite all’efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalità sarebbe rinvenibile laddove si sia formato il giudicato sulla legittimità del titolo prima dell’intervento della sentenza che ha prodotto l’effetto caducatorio della norma che ne ha legittimato il rilascio

III. LE POSSIBILI CONSEGUENZE PENALI

Come noto, l’abuso edilizio costituisce, nelle ipotesi espressamente individuate dal D.P.R. 380/2001, una condotta penalmente rilevante, nella forma della contravvenzione. Pertanto, la presenza di un titolo edilizio (formalmente valido al momento del rilascio ma poi illegittimo per intervenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma presupposta) potrebbe ingenerare il dubbio circa l’esistenza di una responsabilità penale in capo al trasgressore, anche in considerazione dell’impossibilità di far valere, in relazione ai reati contravvenzionali, la mera assenza del dolo, quale elemento soggettivo costitutivo della fattispecie criminosa[6]. Pertanto, per completezza espositiva, appare utile un breve richiamo alle conseguenze della declaratoria di incostituzionalità sulle norme penali.

Nel diritto penale è incontestabile l’inefficacia ex tunc della norma illegittima che introduca una fattispecie criminosa e/o disponga un trattamento peggiorativo per il reo. Infatti, l’art. 30, comma 4, della L. 87 in data 11.03.1953 dispone che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”. In tali casi, producendo la sentenza costituzionale un effetto in bonam partem, non si configurano problematiche in relazione alla garanzia dei diritti del reo. 

Tale retroattività, invece, si atteggia diversamente laddove la norma dichiarata incostituzionale abbia medio tempore introdotto un trattamento di favor rei durante il suo periodo di efficacia, in quanto si rende necessaria una ponderazione di interessi tra l’esigenza di ripristino della legittimità costituzionale, la tutela della libertà personale espressa dall’art. 13 Cost., nonché la previsione di cui all’art. 25, comma 2, Cost., in base alla quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ed il principio della personalità della responsabilità penale, previsto all’art. 27 Cost., il quale attribuisce un’impronta assolutamente garantista al sistema punitivo. La ratio, in breve, è di impedire, da un lato, che un comportamento neutro sia successivamente ritenuto reato e, dunque, meritevole di pena; dall’altro, assicurare che il soggetto che ha realizzato la condotta sia messo nella condizione di sapere prima che tale ipotesi avrebbe configurato reato; il risultato finale perseguito è di garantire il bene primario della libertà personale del cittadino, la cui compressione può trovare giustificazione solo in via di extrema ratio

In proposito, dopo aver superato il problema della censurabilità di norme c.d. di favore[7], si è posto il problema di quale fosse il trattamento da riservare alle condotte medio tempore assunte. Sul punto, la giurisprudenza tradizionale ha ritenuto, similmente a quanto previsto per i Decreti Legge non convertiti, che l’effetto espansivo in pejus della norma generale si estenda esclusivamente ai fatti successivi alla declaratoria di incostituzionalità, continuando a trovare applicazione per i fatti antecedenti la lex mitior, seppur incostituzionale.

 Senonché, una parte della giurisprudenza ha obiettato che, mentre la disciplina dei fatti successivi è una inevitabile conseguenza, non possa trovare applicazione (né a fatti pregressi, né concomitanti, né successivi) una norma che, in quanto incostituzionale, non doveva e non poteva far parte dell’ordinamento giuridico.  Tale problematica viene risolta dalla giurisprudenza più recente distinguendo le ipotesi di abrogazione di norma incriminatrice da quelle afferenti la dichiarazione di illegittimità[8].

In ogni caso, la questione della rilevanza penale della condotta non sembra porre problemi di sorta in virtù del combinato disposto di cui all’art. 25 Cost. ed all’art. 2 c.p., in base al quale “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”. In altre parole, è escluso che possa configurarsi una responsabilità penale in capo al soggetto che, in virtù di un titolo edilizio efficace consolidatosi in base alla disciplina illo tempore vigente, abbia finito di realizzare un’opera che a seguito della declaratoria di incostituzionalità abbia assunto i caratteri dell’abusività. 

Al riguardo è bene precisare, però, che l’irrilevanza penale dell’abuso non incide sulle conseguenze amministrative, quali, ad esempio, l’illegittimità del titolo edilizio e l’ordine di demolizione adottato dal Comune. Pertanto, non è da escludere che, in seguito all’accertamento dell’illegittimità del titolo ed all’ordine di ripristino, il titolare dell’opera (divenuta) abusiva possa comunque incorrere nella responsabilità penale allorquando ometta di ottemperare alle richieste della Pubblica Amministrazione, stante la natura permanente dei reati edilizi.

IV. REVIVISCENZA DELLE DISPOSIZIONI ABROGATE
DALLA L.R. PIEMONTE N. 7/2022.

Ulteriore questione da risolvere attiene alla possibile reviviscenza della disciplina previgente, di cui alla L.R. n. 16 del 2018, ed abrogata dalla L.R. n. 7 del 2022, a seguito della declaratoria di incostituzionalità delle norme di quest’ultima.

Con l’espressione “reviviscenza” il lessico giuridico indica “la condizione di ripresa di vigore della situazione giuridica – ovvero del rapporto – oggetto della vicenda di temporanea – e/o permanente – stasi[9]. Il termine “reviviscenza” sembra costituire una nozione generica con cui i giuristi hanno inteso raggruppare una serie di ipotesi in cui si verifica un “ritorno in vita” di norme che si dovevano considerare relegate nel passato[10]

L’interprete è così chiamato a domandarsi quando è possibile considerare nuovamente vigente una norma che in precedenza è stata abrogata. Invero, il verificarsi della reviviscenza costituisce sempre il frutto di un’attività interpretativa, poiché uno dei caratteri comuni a tutte le ipotesi di reviviscenza consiste proprio nell’assenza, da parte del legislatore o dell’organo che procede al controllo di validità dell’atto normativo, di una dichiarazione di ripristino in forma espressa e vincolante erga omnes. Mediante tale attività, non soltanto il significato, ma la stessa vigenza di una norma dipende dalle valutazioni dei singoli Giudici o delle singole Pubbliche Amministrazioni.

Ciononostante, occorre considerare che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha maturato un orientamento preciso in materia. 

In particolare, “secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate ‘non opera in via generale e automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate (Sentenza n. 13 del 2012)’ […]. In particolare, l’ipotesi della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma che sia meramente abrogativa di una norma precedente, la quale torna per ciò stesso a rivivere (Sentenza n. 255 del 2019; n. 10 del 2018; n. 218 del 2015), non ricorre nel caso oggetto del presente giudizio, atteso il carattere non meramente abrogativo della disposizione censurata, la quale ha invece un contenuto normativo più ampio e sostitutivo di quella previgente. La mera declaratoria di incostituzionalità creerebbe solo un vuoto normativo e non sarebbe in grado di ripristinare, di per sé sola, il trattamento economico vigente al momento dell’accettazione dell’incarico”. (Corte Costituzionale, Sent. n. 7 in data 05.02.2020).

Invero[11], la giurisprudenza della Corte Costituzionale è pacifica nel senso di distinguere, agli effetti della reviviscenza, tra il caso in cui la norma dichiarata incostituzionale aveva meramente abrogato quella precedente, ed il caso in cui invece la norma illegittima aveva modificato o sostituito quella precedente. Solo nel primo caso, ossia quello di una mera abrogazione, la prima norma rivive pienamente, non nel secondo (Corte di Cassazione, Sez. III, Sent. n. 3592 in data 03.05.2022)

Pertanto, per stabilire se la precedente disciplina sia divenuta nuovamente efficace dopo la dichiarazione di incostituzionalità della norma che l’aveva modificata, risulta fondamentale stabilire se si sia trattato di una mera abrogazione o di una modifica dal “contenuto sostitutivo”.

La mera abrogazione presuppone che la disciplina successiva abbia come unico contenuto ed unico effetto quello di eliminare una disciplina precedente: non si può parlare di mera abrogazione se una norma non ha come esclusivo contenuto l’abrogazione di una precedente ma contiene una nuova e diversa disciplina, rispetto a quella abrogata, di una o più situazioni giuridiche, o di uno o più rapporti giuridici.

 Applicando tali coordinate ermeneutiche alle disposizioni della L.R. n. 7/2022 è possibile giungere ad alcune considerazioni.

In primo luogo, viene in rilievo l’art. 5 della L.R. n. 7/2022, dichiarato incostituzionale nella parte in cui, novellando i commi 1 e 2 dell’art. 3 della L.R. Piemonte n. 16/2018, avrebbe consentito la realizzazione degli interventi previsti dal cd. secondo piano casa anche su immobili oggetto di condono.

Tale intervento legislativo ha quindi sostituito le precedenti previsioni dell’art. 3, commi 1 e 2, della L.R. Piemonte n. 16/2018: quindi, la sopravvenuta incostituzionalità dell’art. 3 citato non può dare origine all’automatica reviviscenza della norma in precedenza abrogata. Del resto, la stessa Corte Costituzionale ha preso atto delle modifiche apportate a seguito di un nuovo intervento del legislatore regionale in materia (art. 1, comma 2, L.R. Piemonte n. 20/2023) con ciò circoscrivendo la portata della dichiarazione di incostituzionalità (“al rinvio antecedente a tale ultima riforma”).

L’art. 7 della L.R. n. 7/2022 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui ha introdotto il comma 9 dell’articolo 5 della L.R. 16/2018, consentendo aumenti volumetrici in deroga ai parametri edilizi e urbanistici previsti dagli strumenti urbanistici. Anche in tal caso, l’intervento del legislatore regionale può considerarsi sostitutivo della precedente disciplina di cui alla L.R. 16/2018; anche in tale circostanza, non opera l’automatica reviviscenza della norma previgente a seguito della Sentenza in commento, anche in considerazione della interpretazione “adeguatrice” operata dalla Corte Costituzionale, secondo cui gli aumenti volumetrici previsti dall’art. 5 della L.R. 16/2018 possono essere legittimi solo se conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici o autorizzati attraverso il permesso di costruire in deroga ai sensi dell’art. 14, comma 1-bis, D.P.R. 380/2001.

Particolarmente interessanti sono poi le conseguenze derivanti dalla declaratoria di incostituzionalità che ha investito l’articolo 8, commi 1 e 6, della L.R. n. 7/2022, nella parte in cui ha modificato quanto in precedenza disposto dall’art. 6 della L.R. n. 16/2018. In particolare, è stato ritenuto irragionevole un indiscriminato recupero dei sottotetti, compresi quelli futuri, ossia “recuperabili decorsi tre anni dalla realizzazione o ad avvenuto perfezionamento delle pratiche di legittimazione”. L’incostituzionalità di tale previsione non sembra poter comportare una semplice reviviscenza della precedente, considerato che già la formulazione della L.R. n. 16/2018, per come risultante dalle modifiche apportate con la L.R. 13/2020, contemplava la possibilità di recupero. Pertanto, l’adeguamento di tale previsione sembra non poter prescindere da un nuovo intervento del legislatore regionale in materia. 

Analogamente, a seguito dell’illegittimità dell’art. 8, comma 6, della L.R. n. 7/2022 appare imprescindibile una riformulazione normativa che tenga conto del necessario rispetto del principio di pianificazione del territorio e del rispetto degli standard urbanistici desumibile dall’art. 14 D.P.R. 380/2001, per consentire il recupero dei sottotetti esistenti.

L’illegittimità costituzionale dell’art. 41 della L.R. Piemonte n. 7/2022, che ha sostituito la disciplina di cui alle lettere a), b) e c) dell’art. 6 della L.R. Piemonte n. 19/1999, rivela l’esigenza di ripensare la disciplina regionale in materia di variazioni essenziali al progetto approvato, nel rispetto dei principi fondamentali della materia contenuti nell’art. 32 del D.P.R. 380/2001 ed elaborati dalla giurisprudenza amministrativa.

Infine, particolarmente interessanti appaiono le indicazioni esplicitate dalla Consulta in relazione alla disciplina recata dall’art. 47 della L.R. 7/2022, secondo cui “la reductio ad legitimitatem delle disposizioni impugnate s’ottiene attraverso l’espunzione, dal testo dell’art. 47, delle norme che consentono l’illegittima deroga ai piani urbanistici territoriali, ai regolamenti edilizi comunali e agi standard fissati dal d.m. n. 1444 del 1968”.

In altre parole, a seguito della declaratoria di incostituzionalità che ha interessato le citate disposizioni della L.R. Piemonte n. 7/2022, sembra esservi poco spazio per un’attività interpretativa volta a individuare possibili ipotesi di reviviscenza della normativa regionale precedentemente vigente, in quanto il rispetto delle indicazioni contenute nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 119/2024 presuppone necessariamente l’esercizio di un potere discrezionale e l’adozione di scelte pianificatorie di competenza del legislatore regionale.

[1] Per saperne di più: https://studiolegaledalpiaz.it/blog/incostituzionalita-legge-regione-piemonte-7-2022-corte-costituzionale-sentenza-n-119-2024-le-censure-e-le-conseguenze-i-parte/
[2] Rivista telematica Consulta online: “Gli effetti temporali delle decisioni di incostituzionalità tra Legge fondamentale e diritto costituzionale vivente”, fascicolo I – 2016 (pagg. 194 ss.).
[3] cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 5012 in data 03.11.2015; TAR Veneto, Sez. I, Sent. n. 210 in data 18.02.2019; TAR Campania, Sez. V, Sent. n. 5750 in data 02.10.2018; TAR Lombardia, Sez. II, Sent. n. 2342 in data 05.11.2015.
[4] cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 4523/2023; TAR Campania, Sez. II, Sent. n. 670/2023; TAR Trento, Sez. I, Sent. 29/2022.
[5] Tar Marche, sez. I, 5.1.2018 nn. 3 e 4; Tar Calabria, sez. II, 12.12.2016 n. 2404; TRGA di Bolzano, 1.7.2019 n. 157.
[6] Art. 42 c.p.: “Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”; Corte di Cassazione, Sez. III, Sent. n. 49026 in data 03.12.2019: “In tema di contravvenzioni e la caratteristica dell’elemento soggettivo di questa specie di reati è che l’azione o l’omissione può essere indifferentemente dolosa o colposa, con la conseguenza che non occorre per la loro punibilità il dolo, ma è sufficiente la colpa”.
[7] Corte Costituzionale, Sent. 394/2006: ha sancito l’ammissibilità della declaratoria di incostituzionalità di una norma penale avente ad oggetto una disciplina più favorevole per il reo.
[8] Corte di Cassazione, Sez. Un., Sent. n. 42858 in data 29.05.2014.
[9] Canzian Nicola, La reviviscenza delle norme nella crisi della certezza del diritto, Giappichelli, 2018, p.1.
[10] Ibidem.
[11] cfr. di recente, Consiglio di Stato, Sez. II, Sent. n. 3642 in data 22.04.2024; TAR Sicilia, Sent. n. 2117 in data 05.06.2024.

INCOSTITUZIONALITA’ LEGGE REGIONE PIEMONTE 7/2022: Corte Costituzionale, Sentenza n. 119/2024. LE CENSURE E LE CONSEGUENZE. (I parte).

Con la recente Sentenza n. 119 del 04.07.2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune disposizioni della Legge della Regione Piemonte 31.05.2022 n. 7 poiché in contrasto con le norme emanate dal Legislatore nazionale.

 La decisione della Consulta

All’esito di un ragionamento complesso ed articolato, la Corte ha dichiarato in parte inammissibili o infondate ed in parte estinte alcune delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri; tuttavia, ha accolto alcune censure, dichiarando pertanto l’illegittimità delle relative disposizioni della L. R. n. 7/2022.

I. DIVIETO DI PREMIALITA’ VOLUMETRICHE PER IMMOBILI OGGETTO DI CONDONO EDILIZIO

Innanzitutto, la Consulta ha dichiarato censurabile la previsione di cui all’art. 5 della L. R. Piemonte n. 7/2022 nella parte in cui il legislatore regionale ha consentito gli interventi previsti dal secondo piano casa anche per immobili abusivi condonati, ritenendo ciò in contrasto con l’art. 5, comma 10, del D.L. n. 70/2011. Tale norma, nella misura in cui prevede che gli interventi di razionalizzazione e riqualificazione del patrimonio edilizio non possano riferirsi ad edifici abusivi, non deve essere considerata soltanto una disposizione di riforma economico-sociale fondamentale, bensì un principio di governo del territorio, da cui discende la violazione dell’art. 117, comma 3, Cost..

Il legislatore regionale avrebbe consentito, al contrario, gli interventi previsti nel secondo piano casa anche rispetto a immobili abusivi condonati. Partendo dalla distinzione essenziale tra “condono” e “titolo in sanatoria”, la Consulta ha evidenziato il carattere generale del divieto di concessione di premialità volumetriche per gli immobili abusivi, derivante dalla scelta del legislatore statale di disconoscere vantaggi in caso di abuso e di derogare a tale principio in ipotesi tassative.

II. LA VALENZA DEL PRINCIPIO DI PIANIFICAZIONE URBANISTICA

La seconda dichiarazione di incostituzionalità ha investito l’art. 7 della L. R. Piemonte n. 7/2022 (nella parte in cui ha novellato l’art. 5, comma 9, della L. R. Piemonte n. 16/2018), poiché tale disposizione ha consentito di superare sia i parametri edilizi ed urbanistici previsti da strumenti urbanistici attraverso interventi predeterminati in generale e in astratto, sia la densità fondiaria stabilita dal D.M. n. 1444/1968. Tali previsioni risultano lesive dell’art. 117, comma 3, Cost., nonché dei principi stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale secondo la quale una normativa regionale derogatoria degli strumenti di pianificazione, emanata nell’esercizio della competenza legislativa concorrente in materia di governo del territorio, deve rispettare i principi fondamentali fissati dallo Stato.

E’ stato al riguardo sottolineato che l’art. 41 quinquies della Legge n. 1150 del 1942 afferma un principio di inderogabilità, rispetto alla stessa attività di pianificazione, dei limiti «di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde, pubblico o a parcheggi», che – in attuazione di tale previsione – sono stati fissati con il D.M. n. 1444 del 1968.

La disposizione menzionata identifica il senso del principio di pianificazione “nell’esigenza di una visione integrata di una determinata porzione di territorio, sufficientemente ampia da poter allocare su di esso tutte le funzioni che per loro natura richiedono di trovarvi posto» (sentenza n. 17 del 2023), esigenza «funzionale all’ordinato sviluppo del territorio» (sentenza n. 19 del 2023)”. In tale contesto, la normativa regionale si riferisce a deroghe di tale rilievo che, se autorizzate in via di automatismo, inficiano l’essenza e la funzione stessa del principio di pianificazione.

Le previsioni generale e astratte (di cui al citato art. 7 della L. R. Piemonte n. 7/2022) che consentono l’aumento volumetrico e il superamento di parametri edilizi e urbanistici previsti dagli strumenti urbanistici si pongono, inoltre, secondo la Corte, in evidente contrasto con l’art. 14, comma 1 bis, T.U. Edilizia secondo cui il permesso di costruire in deroga può rilasciato solo previa verifica in concreto affidata alla «deliberazione del consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico limitatamente alle finalità di rigenerazione urbana, di contenimento del consumo del suolo e di recupero sociale e urbano dell’insediamento» (nonché nel rispetto dei parametri di cui al D.M. n. 1444 del 1968).

III. LIMITI AL RECUPERO DEI SOTTOTETTI

La Consulta, inoltre, ha dichiarato incostituzionale l’art. 8 della stessa Legge regionale nella parte in cui ha disposto che per gli edifici realizzati dopo l’entrata in vigore della medesima il sottotetto fosse recuperabile decorsi tre anni dalla realizzazione o ad avvenuto perfezionamento delle pratiche di legittimazione.

Tale previsione risulta in contrasto con l’art. 3 Cost. poiché la previsione dell’indiscriminato recupero dei sottotetti, compresi quelli futuri, è irragionevole. Inoltre, la norma contrasta con l’art. 117, comma 3, Cost. nella parte in cui è prevista la possibilità di recupero dei sottotetti esistenti indipendentemente dagli indici o dai parametri urbanistici ed edilizi previsti dai PRG e dagli strumenti attuativi vigenti.

Anche in questo la Consulta attribuisce rilievo al principio di pianificazione del territorio e del rispetto degli standard urbanistici desumibile dall’art. 14 T.U. Edilizia, in quanto la normativa regionale in esame prevede una deroga generalizzata agli strumenti urbanistici al fine di consentire il recupero dei sottotetti esistenti, così ledendo la competenza legislativa concorrente dello Stato nella materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, comma 3, Cost..

In relazione al rispetto degli standard igienico-sanitari previsti dal D.M. 5 luglio 1975 la Corte Costituzionale non ha ritenuto invece fondate le censure di incostituzionalità, in considerazione del carattere di lex specialis della disciplina regionale relativa ai requisiti di abitabilità dei sottotetti, non regolati a livello di legislazione statale.

IV. LA NOZIONE DI “VARIAZIONI ESSENZIALI AL PROGETTO APPROVATO”

Ulteriore dichiarazione di incostituzionalità ha riguardato l’art. 41, comma 1, della Legge Regionale n. 7/2022 per contrasto con l’articolo 117, comma 3, Cost. in ordine ai principi fondamentali contenuti nell’art. 32 T.U. Edilizia.

In coerenza con tali principi, secondo la Corte le Regioni possono esprimere solo una normativa di dettaglio che non può contraddire la scelta espressa dal legislatore statale di sanzionare con la demolizione ogni modifica incompatibile con l’originario progetto edificatorio.

L’incostituzionalità della norma deriva dall’aver vincolato la variazione essenziale al progetto approvato con riferimento unicamente al mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie che cagioni un’intensificazione degli standard urbanistici, ed alla sola variazione quantitativa, in aumento, del carico urbanistico cagionata dalla diversa utilizzazione dell’immobile, senza considerare alterazioni funzionali derivanti da altre tipologie di interventi non consentiti, violando pertanto il principio di cui all’art. 32, comma 1, lett. a) T.U. Edilizia.

Particolarmente interessante al riguardo è il riferimento operato dalla Consulta alle disposizioni recentemente introdotte dal cd. Decreto Salva Casa (D.L. n. 69/2024), non ancora convertito in Legge, “essendo tali norme variamente volte ad ampliare condizioni e fattispecie per il mutamento della destinazione d’uso, senza modificare direttamente i presupposti della nozione – che qui, invece, viene in discussione – di «variazione essenziale”.

Inoltre, la disciplina regionale è stata dichiarata incostituzionale in quanto trascende il vincolo a definire la disciplina di dettaglio stabilito dall’art. 32, comma 1, T.U. Edilizia, in contrasto con la decisione del Legislatore nazionale di sanzionare con la demolizione le divergenze esecutive in aumento, consistenti rispetto alle misure progettuali consentite, permettendo così un aumento di cubatura o di superficie tale da far emergere una costruzione differente da quella oggetto del permesso di costruire.

Inoltre, è stata dichiarata incostituzionale l’individuazione della variazione essenziale unicamente in ipotesi di modifiche superiori al 20 per cento dei parametri urbanistico-edilizi afferenti all’altezza e alla superficie coperta dal progetto approvato, violando così l’art. 32, comma 1, D.P.R. n. 380/2001. La Corte ha infatti sottolineato come anche modifiche inferiori al 20 per cento dei parametri urbanistico-edilizi relativi all’altezza e alla superficie coperta del progetto approvato possano comportare modalità realizzative dell’intervento costruttivo che portano a un’opera sostanzialmente diversa per conformazione, strutturazione, destinazione o ubicazione.

V. INDEROGABILITA’ DEGLI STANDARD URBANISTICI DI CUI AL D.M. 1444/1968.

Da ultimo, la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’art. 47 della L. R. Piemonte n. 7/2022 nella parte in cui consente interventi edilizi in deroga agli standard urbanistici definiti dalla disciplina nazionale di cui al D.M. 1444/1968. Ancora una volta è stata richiamata la valenza fondamentale assunta dal principio di pianificazione urbanistica la cui violazione ad opera delle disposizioni regionali comporterebbe il rischio di frustrazione della sua funzione di garanzia dell’ordinato sviluppo del territorio.

I limiti fissati dal D.M. 1444/1968 hanno efficacia vincolante anche nei confronti del legislatore regionale, costituendo principi fondamentali in particolare come limiti massimi di densità edilizia, a tutela del primario interesse all’ordinato sviluppo urbano.

Pertanto, secondo la Corte, “la reductio ad legitimitatem” delle disposizioni impugnate si otterrebbe solo attraverso l’espunzione dal testo dell’art. 47 delle norme che altrimenti consentirebbero un’illegittima deroga ai piani urbanistici territoriali, ai regolamenti edilizi comunali ed agli standard fissati dal D.M. n. 1444 del 1968.

*

La Sentenza in esame afferma quindi l’importanza di realizzare, anche a livello regionale, un quadro normativo coerente e uniforme in materia edilizia, rispettoso della disciplina nazionale. Infatti, le Regioni nell’espletare la loro potestà legislativa devono, in ogni caso, rispettare i principi fondamentali stabiliti dal Legislatore nazionale per garantire un’applicazione uniforme della normativa in materia su tutto il territorio nazionale.

Tuttavia, tale pronuncia lascia rilevanti interrogativi circa la validità degli atti posti in essere durante la vigenza delle norme ora dichiarate incostituzionali.

Per l’analisi di tali aspetti si rimanda alla Parte 2 che verrà pubblicata il 23.07. p.v..

PERMESSO DI COSTRUIRE DECADUTO E OPERE PARZIALMENTE ESEGUITE. Consiglio di Stato, Sez. II, Sentenza non definitiva n. 2228/2024: rimessione all’Adunanza Plenaria.

Con la recentissima Sentenza non definitiva n. 2228 del 07.03.2024 la Seconda Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria il quesito su “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento a seguito di un nuovo titolo edilizio”. 

Il caso

Alla base della pronuncia n. 2228/2024 del Consiglio di Stato vi è una complessa vicenda relativa alla realizzazione di un’autorimessa interrata. 

Per la realizzazione della suddetta opera, l’impresa esecutrice dei lavori ha ottenuto un permesso di costruire, successivamente decaduto (ma mai annullato dall’Amministrazione comunale competente) per mancata ultimazione dei lavori entro il termine previsto nel titolo edilizio. 

L’Amministrazione comunale, in ragione dell’infruttuoso spirare del termine di ultimazione dei lavori, ha dichiarato, con proprio provvedimento, la decadenza del permesso di costruire rilasciato all’impresa e, di conseguenza, ha ordinato il ripristino dello stato dei luoghi come risultante in via antecedente all’esecuzione delle opere parzialmente eseguite in forza del permesso di costruire.

Il TAR, adito dall’impresa esecutrice dei lavori che ha impugnato l’ordine di demolizione, ha rigettato il ricorso di primo grado.

In particolare, il Giudice di prime cure ha affermato, posto che il permesso è decaduto per il decorso il termine di ultimazione dei lavori, che il mantenimento delle opere già realizzate presuppone comunque la possibilità di portare a compimento quanto iniziato (nel caso di specie, l’impresa non aveva potuto ultimare i lavori in quanto Il Comune per due volte aveva rigettato il progetto di completamento): a detta del TAR, diversamente opinando, dovrebbe ammettersi la possibilità per il privato titolare di un permesso di costruire di abbandonare l’opera incompiuta (specie se funzionalmente non autonoma) con conseguente ingiustificato deturpamento del contesto circostante.

Nel ricorso in appello, l’impresa ha sostenuto che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio valido, ma poi decaduto, non potrebbero essere oggetto di ordine di demolizione ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 (T.U.E. – Testo Unico Edilizia), posto che tale norma sarebbe applicabile alle sole opere eseguite completamente sine titulo ovvero in difformità dello stesso.

La Sentenza non definitiva n. 2228/2024 del Consiglio di Stato

Il Collegio, con la Sentenza in esame, ha osservato, in primo luogo, che sulla predetta questione si è ripetutamente espressa la giurisprudenza dello stesso Consiglio nei seguenti termini. 

iLa decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini, cioè per fatto imputabile al titolare e relativo alle modalità di utilizzo / inutilizzo del titolo, ha efficacia ex nunc e non ex tunc e, quindi, non implica l’obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio (le quali, perciò, non possono essere ritenute abusive), ove queste risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire, ma comporta semplicemente la necessità, per il titolare decaduto, di chiedere un nuovo permesso per l’esecuzione delle opere non ancora ultimate. 

Infatti, a detta del Consiglio di Stato, in una corretta interpretazione dell’art. 15 del D.P.R. n.380/2001, “la decadenza impedisce solo l’ulteriore decorso dei lavori ma non determina illiceità urbanistica di quanto già realizzato nella vigenza del titolo edificatorio” (Consiglio di Stato, Sez. IV, Sentenza n. 8605/2019).

ii) In mancanza di proroga o rinnovo del titolo, gli interventi effettuati successivamente alla decadenza del titolo risultano abusivi, con conseguente legittimità dell’ordine di demolizione solo per quanto realizzato successivamente all’intervenuta decadenza, ma non per quanto ultimato in precedenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, Sentenza n. 5258/2022).

iii) Il D.P.R. n. 380/2001 ha previsto un regime giuridico differente per gli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità del permesso di costruire e per quelli eseguiti in base a permesso di costruire annullato. Infatti, nel primo caso, l’art. 31 del predetto Decreto prevede l’ingiunzione alla rimozione o alla demolizione, mentre nel secondo caso l’art. 38 stabilisce la possibilità che, in luogo dell’ingiunzione a demolire, possa essere applicata dall’Amministrazione una sanzione pecuniaria (che, quindi, lasci salve le opere eseguite). Nello specifico, il Consiglio di Stato ha evidenziato che l’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abitativo successivamente rimosso, rispetto invece ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, sì da ottenere la conservazione del bene (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, Sentenza n. 2155/2018). 

Alla luce di tali considerazioni, prevedere la demolizione ex art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 di opere eseguite in conformità a un titolo decaduto non sarebbe rispondente ai criteri di graduazione del trattamento sanzionatorio. 

*

Tuttavia, il Consiglio di Stato, nella Sentenza n. 2228/2024, pur ribadendo che, in carenza di una norma che espliciti il regime delle opere parzialmente eseguite cui non faccia seguito il completamento dei lavori in virtù di un nuovo titolo, come nel caso de quo, andrebbe esclusa l’applicazione analogica di una disciplina sanzionatoria espressamente circoscritta ad opere eseguite completamente sine titulo o in difformità dallo stesso, ha comunque ritenuto non irragionevole il citato orientamento del Giudice di prime cure, considerato che l’opera parziale costituisce un manufatto difforme dall’intervento edilizio autorizzato e che, quindi, potrebbe essere precluso il mantenimento della stessa

Tale ultima tesi, ponendosi in contrasto con gli orientamenti giurisprudenziali precedentemente richiamati, ha comportato dunque la decisione, da parte della Sezione Seconda del Consiglio di Stato, di deferire la questione all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a., di cui si attende il fondamentale parere.

DECRETO “SALVA CASA”: le principali novità.

Il 29 maggio 2024 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.L. n. 69/2024 recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica” (cosiddetto Decreto “salva casa”), il quale ha apportato modifiche al D.P.R. n. 380/2001 (T.U.E: Testo Unico Edilizia), introducendo norme volte alla semplificazione ed alla risoluzione di alcune problematiche operative in ambito edilizio, improntate sulla classificazione delle difformità edilizie e che intervengono sulle casistiche di minore gravità.

Infatti, con il “Decreto salva casa” è stata ampliata la casistica degli interventi di edilizia libera, sono state modificate le tolleranze costruttive/esecutive, viene consentita una semplificazione nella sanatoria delle parziali difformità, è stata modificata la definizione di stato legittimo e sono state apportate alcune modifiche al cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.

In particolare, il Decreto è intervenuto sul Testo Unico Edilizia modificando e introducendo le seguenti norme:

  • Art. 6 “Attività edilizia libera”;
  • Art. 9 bis “Documentazione amministrativa e stato legittimo degli immobili”;
  • Art. 23 ter “Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”;
  • Art. 31 “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire,
    in totale difformità o con variazioni essenziali”;
  • Art. 34 “Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di
    costruire”;
  • Art. 34 bisTolleranze costruttive”;
  • Art. 36 “Accertamento di conformità nelle ipotesi di assenza di titolo, totale difformità o variazioni essenziali”;
  • Art. 36 bisAccertamento di conformità nelle ipotesi di parziali difformità”;
  • Art. 37 “Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla
    segnalazione certificata di inizio attività”.

1. Attività edilizia libera.

La prima innovazione introdotta con il D.L. n. 69/2024 attiene alle attività edilizie ritenute non eccessivamente impattanti, eseguibili senza un titolo abilitativo (c.d. edilizia libera).

Tra queste, oltre agli interventi di manutenzione ordinaria, l’installazione di pompe di calore di potenza inferiore a 12 kW e la rimozione di barriere architettoniche, assumono particolare rilievo l’installazione di vetrate panoramiche amovibili (cosiddette “VEPA”) su logge e balconi e l’installazione di opere per la protezione dal sole o da agenti atmosferici.

Le “VEPA” assolvono a funzioni temporanee di protezione dagli agenti atmosferici, di miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche, di riduzione delle dispersioni termiche, nonché di parziale impermeabilizzazione dalle acque meteoriche, e possono essere installate non solo presso balconi o logge ma anche in porticati rientranti all’interno dell’edificio.

Tuttavia, per poter essere liberamente installate, oltre che ad essere destinate esclusivamente all’assolvimento delle predette funzioni, le VEPA devono essere amovibili e totalmente trasparenti, non devono determinare la creazione di spazi stabilmente chiusi con conseguente variazione di volumi e di superfici che possano generare nuova volumetria, non devono comportare il mutamento della destinazione d’uso dell’immobile anche da superficie accessoria a superficie utile, devono consentire la naturale micro-aerazione dei vani interni domestici, e devono avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente, al fine di non apportare modifiche alle preesistenti linee architettoniche.

Nel novero della seconda tipologia di strutture installabili in regime di edilizia libera, invece, rientrano “le opere di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici la cui struttura principale sia costituita da tende, tende da sole, tende da esterno, tende a pergola con telo retrattile anche impermeabile, tende a pergola con elementi di protezione solare mobili o regolabili, e che sia addossata o annessa agli immobili o alle unità immobiliari, anche con strutture fisse necessarie al sostegno e all’estensione dell’opera”.

Sul punto, è opportuno evidenziare che il punto 50 del “Glossario dell’attività edilizia libera”, allegato al D.M. 2 marzo 2018, ricomprendeva già l’installazione, la riparazione, la sostituzione ed il rinnovamento di alcune tipologie di tende, e consentiva in regime di edilizia libera anche la realizzazione di gazebo e di pergolati di limitate dimensioni e non stabilmente fissati al suolo.

Tuttavia, la novella normativa, con cui è stata introdotta la lettera b) ter all’art. 6, comma 1 del D.P.R. n. 380/2001, ha inteso disciplinare puntualmente l’installazione di tali strutture recependo l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi in materia nel corso degli anni, che ne ha ammesso la libera installazione riconoscendone la funzione “protettiva”, e qualificando quale opera principale la tenda e non la struttura di sostegno.

Pertanto, le strutture in parola possono essere pure liberamente impiantate alle condizioni previste per le VEPA, ossia: i) devono essere addossate o annesse agli immobili o alle unità immobiliari anche con strutture fisse necessarie al sostegno ed all’estensione dell’opera; ii) non devono determinare la creazione di uno spazio stabilmente chiuso, con conseguente variazione di volumi e superfici; iii) devono avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente; iv) devono armonizzarsi con le preesistenti linee architettoniche dell’edificio.

2. Lo stato legittimo degli immobili.

Ulteriore importante modifica apportata al T.U.E. riguarda la prova dello stato legittimo degli immobili: come noto, nella previgente formulazione dell’art. 9 bis, comma 1 bis, per tale dimostrazione erano necessari sia il titolo edilizio originario con cui era stato realizzato l’immobile che quello che aveva disciplinato l’ultimo intervento.

Ebbene, il D.L. n. 69/2024 ha posto tali requisiti in alternativa fra di loro e, dunque, lo stato legittimo può essere ora dimostrato con il titolo abilitativo originario che ne ha previsto la costruzione (o che ne ha legittimato la stessa) oppure con il titolo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o l’intera unità immobiliare, purché tale titolo sia stato rilasciato all’esito di un procedimento che abbia verificato l’esistenza del titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali.

La ratio sottesa all’innovazione normativa è quella di valorizzare in particolare l’affidamento del privato nei casi in cui gli Uffici Tecnici comunali abbiano in precedenza espressamente accertato l’esistenza di parziali difformità rispetto al titolo edilizio, senza tuttavia considerarle rilevanti: in tali ipotesi, pertanto, in sede di accertamento dello stato legittimo, l’Amministrazione comunale non può contestare una difformità considerata tollerabile nell’ambito del procedimento inerente l’ultimo intervento edilizio, conclusosi con l’adozione di un provvedimento favorevole al privato.

Non solo: tra le modalità per certificare la regolarità edilizio-urbanistica, la modifica normativa annovera anche le diverse forme di fiscalizzazione dell’abuso edilizio.

Dunque, lo stato legittimo può essere dimostrato con: i) i titoli rilasciati a seguito dei procedimenti per l’accertamento di conformità in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 e del nuovo art. 36 bis del D.P.R. n. 380/2001 (di cui si dirà più diffusamente infra), previo pagamento delle sanzioni/oblazioni; ii) il pagamento della sanzione pecuniaria dovuta a seguito di annullamento del permesso di costruire, in quanto ai sensi dell’art. 38, comma 2 del T.U.E., produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria; iii) il pagamento delle sanzioni previste per gli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da esso, per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla S.C.I.A. e accertamento di conformità, la dichiarazione ex art. 34 bis T.U.E. in merito alle tolleranze costruttive.

Per gli immobili realizzati in epoca in cui non era obbligatoria la previa acquisizione di un titolo abilitativo, invece, restano ferme le disposizioni dell’art. 9 bis, comma 1 bis, D.P.R. n. 380/2001: per essi, dunque, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali.

In merito alla prova dello stato legittimo per tale ultima categoria di immobili, si evidenzia la recente Sentenza n. 4149/2024 della Seconda Sezione del Consiglio di Stato in cui è stato ribadito il consolidato principio per cui l’onere probatorio relativo alla realizzazione dell’immobile in epoca per cui non era necessario un titolo edilizio grava sul privato.

In particolare, il Collegio ha rammentato che “Tale orientamento è basato sul principio di “vicinanza della prova”, essendo nella sfera del privato la prova circa l’epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza, in quanto solo l’interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza del carattere non abusivo di un’opera edilizia, in ragione dell’eventuale preesistenza rispetto all’epoca dell’introduzione di un determinato regime autorizzatorio dello ius aedificandi (Cons. Stato Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 3304; sez. IV, 1 aprile 2019, n. 2115; Sez. VI, 3 giugno 2019, n. 3696; Sez. VI, 5 marzo 2018, n. 1391)”.

Il rigore dell’onere probatorio trova attenuazione “secondo ragionevolezza”, tuttavia, nei casi in cui il privato “da un lato, porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell’intervento prima di una certa data elementi rilevanti (ad esempio, aerofotogrammetrie) e, dall’altro, o la pubblica amministrazione non analizzi debitamente tali elementi o vi siano elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio. In tal caso, non è escluso il ricorso alla prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni prognostiche basate su fatti notori o massime di comune esperienza, inferendo, così e secondo criteri di normalità, la probabile data di tale ultimazione da un complesso di dati, documentali, fotografici e certificativi, necessari in contesti o troppo complessi o laddove i rilievi cartografici e fotografici siano scarsi (Cons. Stato, Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 3304 citata; id. 13 novembre 2018 n. 6360; id. 19 ottobre 2018 n. 5988; id. 18 luglio 2016 n. 3177).

In sostanza, la deduzione della parte privata di concreti elementi di fatto relativi all’epoca dell’abuso può trasferire l’onere della prova contraria in capo all’amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2018 n. 5984; id. VI, 11 giugno 2018, n. 3527; id. VI, 14 maggio 2019, n. 3133). Ciò però in quanto sussistano effettivamente elementi idonei a rendere un quadro probatorio rilevante della data di realizzazione dell’abuso, quali risalenti dati catastali, la natura dei materiali utilizzati, le testimonianze rese in altri giudizi; anche le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà sono ritenute utilizzabili purché in presenza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti (Consiglio di Stato, Sez. II, 4 gennaio 2021, n. 80)[1].

3. Cambio di destinazione d’uso.

Con la modifica dell’art. 23 ter D.P.R. n. 380/2001 è stato reso più agevole il cambio di destinazione d’uso di singole unità immobiliari senza opere, specialmente all’interno delle aree urbane, prevedendo il principio dell’indifferenza funzionale tra destinazioni d’uso omogenee, come individuate dalla legge statale o regionale.

Nello specifico, ferme restando l’osservanza delle normative di settore e delle specifiche condizioni eventualmente fissate dagli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso della singola unità immobiliare, senza opere, è sempre consentito: i) all’interno della stessa categoria funzionale; ii) tra le categorie funzionali relative alle categorie residenziale, turistico-ricettiva, produttiva e direzionale e commerciale, per una singola unità immobiliare, in immobili situati nelle zone omogenee A), B) e C) ovvero nelle zone equipollenti, come definite dalle leggi regionali in materia.

In merito a tale ultima fattispecie, peraltro, è stato specificato che, per le singole unità immobiliari, il mutamento di destinazione d’uso, oltre ad essere sempre consentito nel caso in cui sia finalizzato a conferire all’unità immobiliare la forma di utilizzo conforme a quella prevalente nelle altre unità immobiliari presenti nell’immobile, non è assoggettato all’obbligo di reperimento di ulteriori aree per servizi di interesse generale né al vincolo della dotazione minima obbligatoria di parcheggi.

Per le unità immobiliari poste al primo piano fuori terra, comunque, il passaggio alla destinazione residenziale è ammesso nei soli casi espressamente previsti dal piano urbanistico e dal regolamento edilizio.

Da ultimo, il nuovo art. 23 ter, comma 1 quinquies del T.U.E, prevede che i predetti cambi di destinazione d’uso sono soggetti alla S.C.I.A. ex art. 19 L. n. 241/1990, ferme restando le norme regionali più favorevoli.

4. L’alienazione degli immobili abusivi.

Per gli Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire,
in totale difformità o con variazioni essenziali, in caso di mancata rimozione dell’abuso da parte del responsabile e conseguente acquisizione del bene al patrimonio comunale, il previgente art. 31, comma 5, del D.P.R. n. 380/2001 prevedeva la demolizione dell’opera abusiva con ordinanza del Dirigente o del Responsabile del competente ufficio comunale a spese del responsabile, salva la possibilità di mantenere il manufatto, previa dichiarazione con Deliberazione consiliare dell’esistenza di prevalenti interessi pubblici e purché l’opera stessa non fosse contrastante con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.

Con il Decreto “salva casa”, tuttavia, anche tale disposizione è stata modificata: secondo l’attuale formulazione l’opera abusiva può essere mantenuta mediante Deliberazione del Consiglio Comunale con la quale si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, culturali, paesaggistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico, previa acquisizione del parere delle Amministrazioni competenti ai sensi dell’articolo 17 bis L. n. 241/1990 in materia di silenzio ed inerzia nei rapporti  tra Amministrazioni Pubbliche e tra Amministrazioni Pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici.

Altresì, quando l’opera abusiva non contrasta con rilevanti interessi urbanistici, culturali, paesaggistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico, è previsto che il Comune possa anche alienare il bene, sempre previo parere delle Amministrazioni competenti ai sensi del summenzionato art. 17 bis, precisando che il responsabile dell’abuso non può partecipare all’alienazione: in tale ipotesi, il contratto di alienazione è sospeso fino alla effettiva rimozione da parte dell’acquirente delle opere abusive, ed il valore venale dell’immobile è determinato dall’Agenzia del Territorio tenendo conto del costo per la demolizione delle irregolarità.

5. Le tolleranze costruttive e le tolleranze esecutive.

Prima di esaminare le modifiche apportate dal D.L. n. 69/2024 all’art. 34 bis del T.U.E., si rammenta che la distinzione tra le tolleranze costruttive e quelle esecutive dettata dalla norma in questione: le prime rappresentano lo scostamento dai parametri autorizzati in misura pari al 2% e non sono considerate un illecito edilizio; le seconde, invece, rappresentano le irregolarità geometriche, le modifiche di minima entità alle finiture degli edifici, la diversa collocazione di impianti e di opere interne eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi.

Fatta tale doverosa premessa, le innovazioni introdotte dal Decreto “salva casa”, per gli interventi realizzati entro il 24.05.2024 (con dichiarazione di fine lavori presentata entro la medesima data), hanno riparametrato le tolleranze costruttive in misura inversamente proporzionale alla superficie utile del manufatto: per l’effetto, quanto minore è la superficie utile tanto maggiore è il limite consentito percentualmente.

Nello specifico, sono stati stabiliti diversi valori in relazione alle tolleranze entro le quali è possibile ritenere che il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia: con tale previsione si è voluto consentire di tenere conto, nell’ambito della definizione della tolleranza, di scostamenti rispetto alle caratteristiche costruttive previste nei titoli abilitativi che, seppur minimi, quando valutati rispetto a superficie di modesta entità, possono impattare per più del 2% del totale. Pertanto, il nuovo art. 34 bis T.U.E. prevede che, in relazione ai predetti interventi realizzati entro il 24.05.2024, il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro i seguenti limiti:

  • del 2% delle misure previste nel titolo abilitativo, per le unità immobiliari con superficie utile superiore a 500mq;
  • del 3% delle misure previste nel titolo abilitativo, per le unità immobiliari con superficie utile compresa tra 300 e 500mq;
  • del 4% delle misure previste nel titolo abilitativo, per le unità immobiliari con superficie utile compresa tra 100 e 300mq;
  • del 5% delle misure previste nel titolo abilitativo, per le unità immobiliari con superficie utile inferiore a 100mq.

Tuttavia, è opportuno precisare che, ai fini del computo della superficie utile, la norma impone di considerare la sola superficie assentita con il titolo edilizio che ha abilitato la realizzazione dell’intervento, al netto di eventuali frazionamenti dell’immobile o dell’unità immobiliare eseguiti nel corso del tempo: la specificazione mira ad evitare l’eventuale proliferare di attività di frazionamento meramente strumentali e finalizzate solo ad ottenere l’applicazione di un regime delle tolleranze più favorevole.

Quanto alle tolleranze esecutive, invece, è disposto che gli interventi realizzati sempre entro il 24.05.2024 (con dichiarazione di fine lavori presentata entro tale data), oltre a quelle già normativamente previste, costituiscono tolleranze esecutive nei seguenti casi:

  • minore dimensionamento dell’edificio;
  • mancata realizzazione di elementi architettonici non strutturali (da intendersi come elementi architettonici non strutturali in relazione ai quali le commissioni per il paesaggio non hanno espresso parere);
  • irregolarità geometriche e modifiche alle finiture degli edifici di minima entità;
  • irregolarità esecutive di muri esterni e interni e difforme ubicazione delle aperture interne;
  • difforme esecuzione di opere rientranti nella nozione di manutenzione ordinaria;
  • errori progettuali corretti in cantiere ed errori materiali di rappresentazione progettuale delle opere.

Previsioni particolari, poi, sono state introdotte per le unità immobiliari ubicate nelle zone sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità: il nuovo comma 3 bis dell’art. 34 bis D.P.R. n. 380/2001 pone in capo al tecnico l’onere di attestare che le tolleranze rispettano le prescrizioni dettate dal Testo Unico Edilizia in riferimento alle costruzioni in zone sismiche.

Tale attestazione dev’essere corredata dalla documentazione tecnica sull’intervento predisposta sulla base del contenuto minimo richiesto dall’art. 93, comma 3, del T.U.E., ai sensi del quale “Il contenuto minimo del progetto è determinato dal competente ufficio tecnico della regione. In ogni caso il progetto deve essere esauriente per planimetria, piante, prospetti e sezioni, relazione tecnica e accompagnato dagli altri elaborati previsti dalle norme tecniche”.

6. Difformità parziali e nuovo accertamento di conformità in sanatoria.

Le novità più rilevanti (ed anche più attese) apportate dal Decreto “salva casa” attengono alla modifica dell’istituto dell’accertamento di conformità ora disciplinato, nelle sue diverse ipotesi di irregolarità anche con riferimento ai diversi titoli abilitativi, dai novellati artt. 36, 37 e dal nuovo art. 36 bis del D.P.R. n. 380/2001.

Preliminarmente, occorre richiamare le diverse fattispecie patologiche di abusi individuate dal T.U.E., graduate in relazione alla gravità della violazione:

  • parziali difformità (artt. 34 e 37 T.U.E.), comprese tra i limiti delle tolleranze costruttive (art. 34 bis) ed i limiti delle variazioni essenziali (definiti dalla legislazione regionale);
  • variazioni essenziali (art. 32 T.U.E.), ossia le ipotesi di interventi completamente diversi, rispetto a quanto assentito, per caratteristiche costruttive o destinazione d’uso;
  • assenza di titolo (artt. 31 e 33 T.U.E.), ossia le ipotesi in cui il titolo è inesistente o, seppur esistente, privo di efficacia ab origine ovvero a seguito di revoca da parte del Comune o di provvedimento giurisdizionale;
  • totale difformità (artt. 31 e 33 T.U.E.), vale a dire le ipotesi in cui il manufatto realizzato è completamente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, planivolumetriche o di utilizzazione, oppure in caso di esecuzione di volumi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire organismi edilizi autonomamente utilizzabili.

La novella normativa è intervenuta prevedendo misure semplificatorie esclusivamente in relazione alle parziali difformità: come noto, infatti, per l’accertamento di conformità di un’opera abusiva (anche detta “sanatoria” e riferita alle ipotesi di “intervento eseguito in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 23, comma 01, o in difformità da essa”), il previgente art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 non distingueva la gravità dell’abuso e prevedeva sempre la verifica della sussistenza del requisito della cosiddetta “doppia conformità” dell’opera, ossia la rispondenza del manufatto alla normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della realizzazione ed a quella in vigore al momento della presentazione dell’istanza.

Nella nuova formulazione, invece, l’applicazione dell’art. 36 del T.U.E., e quindi la verifica della “doppia conformità”, è limitata solo alle fattispecie di: a) assenza, totale difformità o variazioni essenziali rispetto al permesso di costruire, e b) assenza, totale difformità o variazioni essenziali rispetto alla S.C.I.A. alternativa al permesso di costruire.

Per la sanatoria delle parziali difformità degli interventi dal permesso di costruire o dalla S.C.I.A. (art. 34) e per le ipotesi di assenza o difformità dalla S.C.I.A. (art. 37), invece, con l’introduzione ex novo dell’art. 36 bis è stato modificato l’istituto della “doppia conformità”.

In questi casi, infatti, fino alla scadenza di cui all’art. 34, comma 1, D.P.R. n. 380/2001 e, comunque, fino all’irrogazione delle relative sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso o l’attuale proprietario dell’immobile possono ottenere il permesso di costruire e presentare la S.C.I.A. in sanatoria se l’intervento risulta conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda ed ai requisiti prescritti dalla disciplina edilizia vigente al momento della realizzazione dell’intervento: non è più previsto il contemporaneo rispetto di normative temporalmente diverse, dunque, ma solo la rispondenza alla disciplina in vigore alla data di realizzazione dell’abuso ed ai “semplici” requisiti urbanistico-edilizi in essere al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria.

Peraltro, ulteriore elemento di novità consiste nella possibilità, non ammessa sin ora dalla giurisprudenza, di rilasciare una “sanatoria condizionata”: lo Sportello Unico chiamato ad esaminare l’istanza, invero, può condizionare il rilascio del provvedimento sanante alla realizzazione, da parte del richiedente, degli interventi edilizi necessari ad assicurare l’osservanza della normativa tecnica di settore relativa ai requisiti di sicurezza, igiene, salubrità, efficienza energetica degli edifici e degli impianti negli stessi installati, superamento delle barriere architettoniche e rimozione delle opere che non possono essere sanate, individuando anche le misure da prescrivere, e che costituiscono condizioni per la formazione del titolo.

Il nuovo art. 36 bis, comma 4, D.P.R. 380/2001 e l’art. 167 D.Lgs. n. 42/2004.

In riferimento alla sanatoria degli abusi “minori”, in attesa della conversione del D.L. n. 69/2024, si segnalano le possibili criticità che potrebbero conseguire dalla prossima applicazione dell’art. 36 bis, comma 4, del T.U.E. in relazione agli interventi eseguiti su immobili vincolati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica: in questi casi, infatti, la disposizione prevede che, per la sanatoria delle opere abusive, il Dirigente o il Responsabile dell’ufficio richiede all’autorità preposta alla gestione del vincolo apposito un parere vincolante in merito all’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento.

L’autorità, poi, deve pronunciarsi sulla domanda entro il termine perentorio di 180 giorni, previa acquisizione del parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine sempre perentorio di 90 giorni: in assenza dei citati pareri entro il predetto secondo termine, il Dirigente o il Responsabile dell’ufficio provvede autonomamente.

Ebbene, in assenza di indicazioni in merito, si pongono alcuni problemi interpretativi circa la portata applicativa della nuova norma del T.U.E. in rapporto con l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004: infatti, come evidenziato in precedenza, la nuova sanatoria ex art. 36 bis è consentita anche per le parziali difformità, tra le quali la giurisprudenza annovera anche gli aumenti, minimi e non rilevanti, di cubatura e superfice.

Il summenzionato art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004, invece, disciplina l’accertamento di compatibilità paesaggistica (che in ogni caso, si rammenta, non costituisce una sanatoria paesaggistica postuma), e lo limita drasticamente alle sole ipotesi in cui l’attività abusiva non abbia comportato “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”: le previsioni recate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, dunque, non contemplano in alcun modo la possibilità di “sanare” nemmeno la minima realizzazione di superfice o volume non previamente autorizzata.

Per di più, le previsioni dell’art. 36 bis divergono anche con quanto disposto dall’art. 32, comma 3, del T.U.E., il quale prende in considerazione due ipotesi: i) gli interventi realizzati con variazioni essenziali su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico, ambientale e idrogeologico, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, che sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli artt. 31 e 44 D.P.R. n. 380/2001; ii) in via residuale, la stessa norma prevede che “Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali”.

Pertanto, dal tenore letterale della disposizione de qua risulta esclusa la possibilità di ricollegare la nozione di “parziali difformità” agli immobili vincolati o siti in aree sottoposte a vincolo, posto che su di essi tutti gli interventi sono sempre considerati variazioni essenziali.

Per l’effetto, stando a quanto stabilito dall’art. 32 del T.U.E., non modificato dal Decreto “salva casa”, per gli immobili vincolati non sussistono parziali difformità da poter sanare mediante il ricorso alla nuova procedura delineata dall’art. 36 bis.

È auspicabile, dunque, un intervento normativo in sede di conversione del D.L. n. 69/2024 finalizzato a coordinare ed a specificare l’ambito applicativo delle menzionate disposizioni, al fine di non incorrere nel rischio, contrario alla ratio ispiratrice della riforma, di favorire il proliferare di contenziosi che aggraverebbero ulteriormente i procedimenti amministrativi per le regolarizzazioni degli immobili.

[1] Consiglio di Stato, Sez. II, Sent. n. 4149/2024.

CONSIGLIO DI STATO: LE TRE GEMELLE DELL’ADUNANZA PLENARIA SULLA FISCALIZZAZIONE DELL’ABUSO EDILIZIO

Con le recenti Sentenze nn. 1-2-3 in data 08.03.2024[1] l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sulle questioni rimesse alla sua attenzione con Ordinanza n. 6864 del 13.07.2023[2] del Consiglio di Stato, Sez. II, fornendo precisazioni sulla disciplina della c.d. “fiscalizzazione dell’abuso”. 

In particolare, i quesiti su cui si è espresso il superiore organo di giustizia amministrativa vertono sull’art. 33, comma 2, D.P.R. 380/2001 (in seguito Testo Unico Edilizia “TUE”): il primo connesso alla corretta interpretazione dell’espressione “data di esecuzione dell’abuso”; il secondo relativo alla determinazione del costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex art. 22 della L. 392/1978. 

I fatti di causa

La vicenda trae origine dall’istanza ex art. 33, comma 2, TUE presentata da una nota Società vinicola al Comune di Bormio per la c.d. “fiscalizzazione” di un abuso edilizio (che non costituisce sanatoria dello stesso).

Nell’accogliere l’istanza, l’Ufficio tecnico comunale ha quantificato la sanzione secondo il seguente schema:

  1. individuazione della superficie convenzionale ai sensi dell’art. 13 della L. 392/1978;
  2. determinazione del costo unitario di produzione;
  3. moltiplicazione della superficie convenzionale per il costo unitario di produzione;
  4. rivalutazione della somma così quantificata, in base ai parametri ISTAT, a titolo di aumento di valore dell’immobile;
  5. raddoppio di tale importo.

Non concordando sulla quantificazione della sanzione, la Società ha presentato ricorso al TAR al fine di contestare il meccanismo utilizzato dall’amministrazione per attualizzare il costo di produzione, lamentando la violazione dell’art. 33, comma 2, TUE ai sensi del quale “qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, e con riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti all’applicazione della legge medesima, del parametro relativo all’ubicazione e con l’equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell’articolo 16 della medesima legge”. In particolare, la ricorrente riteneva che il valore del costo di produzione dovesse essere fissato al momento dell’abuso, ossia il 1993.

Il Giudice Amministrativo, però, ha respinto le pretese della ricorrente sulla base di ragioni letterali, sistematiche e storiche.

  • Quanto al dato letterale, il TAR ha affermato che con “data di esecuzione” non si può intendere la data di ultimazione di lavori, poiché altrimenti non avrebbe alcun senso il riferimento all’indice ISTAT. Pertanto, tale locuzione andrebbe intesa come momento in cui l’abuso viene fiscalizzato, poiché l’abuso ha natura di illecito permanente e sussiste sino alla determinazione della sanzione pecuniaria sostitutiva.
  • Quanto al dato sistematico, il TAR ha richiamato l’art. 34 TUE (relativo alla fiscalizzazione delle opere eseguite in parziale difformità dal titolo edilizio), l’art. 33, comma 2, TUE (nella parte relativa agli immobili per uso diverso da quello abitativo) e l’art. 4, comma 6, della L.R. Lombardia n. 31/2004, attuativa delle disposizioni del condono edilizio del 2003.
  • Quanto al carattere storico, il TAR ha richiamato l’abrogato art. 9 della L 47/1985 che non conteneva alcun riferimento all’aggiornamento dell’indice ISTAT.

La decisione del TAR è stata impugnata innanzi alla seconda Sezione del Consiglio di Stato, la quale ha ritenuto che “in mancanza di specifici precedenti giurisprudenziali al riguardo la Sezione ritiene di dover rimettere l’affare alla Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a. trattandosi di questione che può dar luogo a contrasti giurisprudenziale e che d’altra parte è di particolare rilevanza in ragione anche delle numerose questioni pendenti in tema di condono edilizio”.

La questione controversa

Oggetto della controversia, pertanto, non è il corretto esercizio, da parte dell’amministrazione, del potere di cui all’art. 33, comma 2, TUE, né la determinazione della superficie convenzionale dell’abuso o del costo unitario di produzione, ma l’attualizzazione operata dall’amministrazione comunale di quel costo al momento dell’irrogazione della sanzione pecuniaria. 

Dopo una breve ricostruzione della giurisprudenza, la seconda Sezione del Consiglio di Stato ha osservato che:

  • per un verso le conclusioni raggiunte dal giudice di primo grado non risultano pertanto prima facie irragionevoli, sono convincentemente improntate ad un significativo intento di giustizia sostanziale per evitare che, attraverso la c.d. fiscalizzazione dell’illecito edilizio, il cittadino, già resosi colpevole dell’illecito non sanabile e per il quale era stata disposta la demolizione, possa ulteriormente avvantaggiarsi per l’impossibilità della demolizione a danno della collettività intera, attraverso l’imposizione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva di quella reale, del tutto inadeguata, priva dei requisiti dell’effettività e quantomeno depotenziata sotto il profilo dell’effetto risarcitorio nei confronti della collettività offesa dall’abuso edilizio. A tanto si giunge, anche in mancanza del decreto ministeriale annuale di adeguamento ISTAT, attraverso l’attualizzazione del valore dell’immobile calcolato con riferimento all’anno di costruzione ovvero alla data dell’ultimo decreto ministeriale all’anno di irrogazione della sanzione o quanto meno al momento della scoperta da parte degli uffici pubblici dell’abuso o al momento di cui dell’abuso è stato chiesto dall’interessato il condono
  • per altro verso non può sottacersi che, come sostenuto dall’appellante, il dato testuale della norma (art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001) appare escludere in radice la possibilità dell’attualizzazione dell’aggiornamento ISTAT dei costi di produzione risultante dall’ultimo decreto ministeriale, mancando innanzitutto in tal senso un’apposita previsione. Peraltro, non può escludersi che, come nella specifica fattispecie in esame che attiene ad una richiesta di condono edilizio, l’anno di realizzazione delle opere (1993) possa anche coincidere con quello della materiale esecuzione dell’abuso (inteso come perfezionamento dell’abuso) e cioè della presentazione della domanda di condono, ferma tuttavia la necessità di precisare definitivamente il significato dell’espressione ‘momento di esecuzione dell’abuso’. Inoltre, neppure può sottacersi che, non potendosi imputare al cittadino l’abrogazione di una norma (art. 22 della l. n. 392 del 1978) che renderebbe iniqua la stessa determinazione della sanzione pecuniaria, vertendosi in tema di irrogazione di una sanzione, sia pur solo pecuniaria (in sostituzione di quella ripristinatoria), potrebbe dubitarsi della legittimità della sua determinazione quanto alla sua attualizzazione in mancanza di una apposita espressa previsione normativa”.

I quesiti

Pertanto, con Ordinanza n. 6864 del 13.07.2023 il Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria la soluzione dei seguenti quesiti:

  • se con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di cui all’art. 33, comma 2, debba intendersi il momento di completamento dell’abuso ovvero in cui l’abuso è stato accertato dai competenti uffici pubblici ovvero sia stato denunciato dall’interessato a mezzo della richiesta di un condono o ancora quello di irrogazione della sanzione pecuniaria o demolitoria, intendendosi cioè l’espressione come momento di cessazione dell’abuso;
  • se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex art. 22 della l. n. 392 del 107), ai fini della determinazione della giusta sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 possa procedersi all’attualizzazione, secondo gli indici ISTAT, al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria dei valori risultanti dagli ultimi decreti ministeriali (30 gennaio 1997 e 18 dicembre 1998) ovvero se ancora l’attualizzazione possa essere quanto meno limitata al momento della scoperta dell’abuso o della sua denunzia (istanza di condono)”.

Le riflessioni dell’Adunanza Plenaria

Per rispondere ai quesiti, il massimo organo di giustizia amministrativa afferma che risulta preliminare chiarire le modalità di determinazione del costo di produzione. In particolare, sono possibili due diverse interpretazioni:
I. la prima, in base alla quale andrebbe determinato secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale e poi il relativo importo aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione;
II. la seconda, in base alla quale andrebbe determinato con riferimento all’ultimo costo di produzione stabilito con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, e l’importo così ottenuto incrementato sulla base dell’indice ISTAT del costo di produzione.

La scelta tra le due interpretazioni lascia aperto un ulteriore interrogativo, ossia cosa si intenda per “data di esecuzione dell’abuso”, in relazione al quale è possibile fornire quattro diverse interpretazioni:
a) il momento in cui sono ultimati i lavori edilizi abusivi;
b)
il momento in cui l’abuso è stato accertato da parte dell’amministrazione;
c) il momento in cui l’abuso è autodichiarato da parte dell’interessato;
d) il momento in cui è irrogata la sanzione pecuniaria.

In relazione al primo interrogativo, l’Adunanza Plenaria ritiene che l’art. 33, comma 2, TUE prevede due distinte operazioni: a) individuare il costo di produzione, determinato con il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso; b) attualizzare l’importo della sanzione, individuato sulla base del costo di costruzione, applicando l’indice ISTAT. Pertanto, non va indicizzato l’importo indicato nel decreto ministeriale, ma quello aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. Questa soluzione, da un lato, consente di specificare quale deve essere il decreto ministeriale da utilizzare, dall’altro spiega perché nella frase vi sia una virgola dopo il termine “abuso”.

In relazione alla locuzione “data di esecuzione dell’abuso”, invece, il supremo consesso ritiene che debba essere valorizzato il dato testuale e che, pertanto, debba ritenersi preferibile la prima interpretazione: quindi, la data dell’abuso corrisponde a quella di ultimazione dei lavori edilizi.

In conclusione, l’aumento di valore dell’immobile va individuato sulla base dei criteri contenuti nella Legge n. 392/1978, calcolando la superficie convenzionale e considerando il costo unitario di produzione secondo il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso: la moltiplicazione tra i due termini indica il costo di produzione complessivo, ossia l’aestimatio, che va aggiornato (taxatio) sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione.

I principi enunciati dall’Adunanza Plenaria

Può pertanto, darsi risposta ai quesiti sottoposti all’esame del Collegio nel senso che:

a) con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, deve intendersi il momento di realizzazione delle opere abusive;

b) ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria da determinare ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, deve procedersi alla determinazione della superficie convenzionale ai sensi dell’art. 13 della legge n. 392/1978 ed alla determinazione del costo unitario di produzione, sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo unitario di produzione, va attualizzato secondo l’indice ISTAT del costo di costruzione”.

IMMOBILI PRIVI DI AGIBILITA’. EFFETTI SULLA COMPRAVENDITA: Corte di Cassazione, Ordinanza n. 8749/2024.

Con la recentissima Ordinanza n. 8749 del 3 aprile 2024 la Corte di Cassazione chiarisce le conseguenze della vendita dell’immobile privo del certificato di agibilità. 

*

Nel caso di specie, gli acquirenti hanno ottenuto, in primo grado, la risoluzione del contratto preliminare e la condanna della Società di costruzione alla restituzione della caparra confirmatoria “per grave inadempimento della promittente venditrice nella consegna di un valido certificato di abitabilità, in difetto di alcuna prova che l’immobile promesso in vendita presentasse tutte le caratteristiche necessarie per l’uso proprio […]”

La Società promittente venditrice ha impugnato la pronuncia sfavorevole asserendo i) la mancata previsione di un termine essenziale per la consegna del certificato di agibilità (la cui assenza era, comunque, circostanza nota all’acquirente), nonché ii) l’erronea interpretazione delle clausole contrattuali con cui le parti hanno subordinato la risoluzione del contratto (solo) all’esito negativo del giudizio amministrativo promosso avverso il rigetto dell’istanza di condono (tale circostanza non si era tuttavia verificata, ma, anzi, il TAR competente aveva annullato il provvedimento amministrativo consentendo, di fatto, l’instaurazione di una nuova fase istruttoria). 

A seguito dell’accoglimento dell’appello, i promittenti acquirenti hanno quindi promosso ricorso per cassazione. 

La decisione

Con l’Ordinanza in esame la Suprema Corte è tornata ad affrontare le conseguenze dell’abuso edilizio, e, in particolare, i presupposti dell’azione di risoluzione del contratto preliminare di compravendita dell’immobile per inadempimento della promissaria alienante. 

Nella fattispecie, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la pronuncia di secondo grado poiché la Corte d’Appello “ha argomentato il rigetto della domanda di scioglimento del contratto preliminare per inadempimento grave imputabile alla promittente alienante su un artificioso automatismo tra carenza del presupposto affinché potesse operare la condizione risolutiva [esito negativo del giudizio amministrativo nelle more instaurato dalla Società di costruzioni] e difetto dei requisiti per ottenere la pronuncia costitutiva di risoluzione giudiziale ex art. 1453 c.c.

Posto che la Società promittente venditrice non era in grado di ottenere (e, quindi, consegnare) il certificato di idoneità abitativa neppure entro la data fissata per la stipulazione del contratto definitivo, la Suprema Corte, nell’interpretazione della volontà delle parti, ha qualificato l’assenza del provvedimento amministrativo  come la mancata verificazione di un evento futuro ed incerto, che, come noto, integra, ai sensi dell’art. 1353 c.c., una condizione risolutiva negativa che, di fatto, alla sua (mancata) verificazione, priva il contratto inter partes di effetti ab origine.  

Tra l’altro, la Corte d’Appello non aveva neppure valutato “l’incidenza qualitativa e subiettiva” (ai sensi dell’art. 1455 c.c. che disciplina l’“Importanza dell’inadempimento”) degli inadempimenti contrattuali della Società venditrice puntualmente dedotti in giudizio (ossia la carenza dei requisiti per ottenere la sanatoria del mutamento di destinazione d’uso da servizi comuni a superficie abitativa). 

Ciò premesso, la Suprema Corte ha ribadito il seguente principio di diritto: “[…] nei contratti con prestazioni corrispettive, ove sottoposti a condizione risolutivala rilevanza del comportamento dei contraenti con riguardo all’inadempimento delle prestazioni a carico di ciascuno di essi e al conseguente diritto della parte adempiente ad ottenere in giudizio la risoluzione del contratto medesimo, resta subordinata al mancato verificarsi dell’evento condizionante […]” (ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 25061/2018).

Con specifico riferimento alla compravendita di immobili destinati ad abitazione, poi, nell’Ordinanza in oggetto si dà atto di due distinte ipotesi che, nella realtà, possono verificarsi. 

I) Qualora l’immobile presenti insanabili violazioni di disposizioni urbanistiche, […], non essendo il cespite oggettivamente in grado di soddisfare le esigenze concrete di sua utilizzazione, diretta o indiretta, ad opera del compratore, si realizza un inadempimento qualificato che può dar luogo alla risoluzione del contratto, siccome conseguente alla vendita di alium pro alio datum

Per l’effetto, in tale ipotesi, sono integrati gli estremi di un inadempimento qualificato di per sé idoneo alla risoluzione del contratto: pertanto, è intrinseca e già provata la gravità dell’inadempimento in relazione alle concrete esigenze di utilizzazione (diretta o indiretta) dell’immobile da parte del promissario acquirente  

II) Al contrario, invece, qualora manchi la documentazione amministrativa, ma siano presenti, in concreto, i requisiti previsti dalla legge per l’agibilità dell’immobile (che potrà, quindi, essere ottenuta), “non si può attivare il rimedio della risoluzione, presupponendo il ricorso a detto rimedio la verifica, sul piano oggettivo e subiettivo, dell’importanza dell’inadempimento ex art. 1455 c.c.

In definitiva, la Corte ha rinviato la causa alla Corte d’Appello competente, in diversa composizione, affinché effettui un’indagine, in base al quadro probatorio offerto, in merito alla sanabilità o meno delle difformità urbanistiche riscontrate e provate in giudizio.

ABUSI EDILIZI: INOTTEMPERANZA ALL’ORDINE DI DEMOLIZIONE. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, Sent. n. 16/2023

In un’importante Sentenza resa in merito alle conseguenze derivanti dall’inottemperanza all’ordine di demolizione, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio dell’irretroattività della sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 31, comma 4 bis, D.P.R. n. 380/2001, nel caso in cui la mancata demolizione delle opere abusive si sia consumata prima dell’entrata in vigore della L. n. 164/2014 che ha introdotto il summenzionato comma 4 bis.

Il caso.

La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso promosso dalla nuda proprietaria di un fondo, alla quale era stata notificata un’ordinanza di demolizione di opere abusive realizzate in epoca anteriore all’acquisto della proprietà.

Nelle more del giudizio, l’Amministrazione comunale procedente ha accertato l’inottemperanza all’ordine demolitorio e, per l’effetto, ha disposto l’acquisizione dell’immobile abusivo al proprio patrimonio ed ha irrogato la sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 31, comma 4 bis, D.P.R. n. 380/2001, quantificata nella misura massima di € 20.000 in ragione della realizzazione dell’abuso in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico.

La nuda proprietaria, quindi, ha impugnato anche il provvedimento sanzionatorio rilevando che l’inottemperanza si era verificata prima dell’introduzione del predetto comma 4 bis ad opera del D.L. n. 133/2014, convertito con modifiche dalla L. n. 164/2014.

Il TAR adito ha respinto il ricorso, e la proprietaria ha quindi proposto appello innanzi al Consiglio di Stato censurando la statuizione di primo grado nella parte in cui aveva legittimato l’irrogazione della sanzione pecuniaria in quanto, secondo il TAR, l’inottemperanza alla demolizione era proseguita anche dopo l’introduzione della norma sanzionatoria che, quindi, ha trovato applicazione.

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, nel giudizio di appello, ravvisando la presenza di contrasti giurisprudenziali in merito alla natura dell’illecito edilizio sanzionatorio, avente riflessi anche riguardo all’applicazione temporale del citato comma 4 bis, ha rimesso il ricorso all’esame dell’Adunanza Plenaria.

La Sentenza: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, Sent. n. 16/2023.

Nell’esaminare la questione, l’Adunanza Plenaria ha dapprima richiamato i poteri di vigilanza e repressione degli abusi edilizi posti in capo ad un’Amministrazione comunale, disciplinati dagli artt. 27 e 31 del Testo Unico Edilizia (D.P.R. n. 380/2001).

Quindi, il Consiglio di Stato ha delineato la struttura dell’intervento repressivo comunale di cui all’art. 31, distinguendolo in quattro fasi: i) la prima fase è quella di verifica ed accertamento della realizzazione di un abuso edilizio, per interventi realizzati in assenza o in difformità al Permesso di Costruire, che si conclude con l’adozione dell’ordinanza con cui si ingiunge al proprietario ed al responsabile di rimuovere l’abuso entro il termine di 90 giorni; ii) la seconda prende avvio dopo il decorso del termine in precedenza ingiunto, per verificare che le opere abusive siano state effettivamente demolite o meno; iii) la terza fase, invece, interviene in caso di mancata rimozione delle opere illecite, da cui consegue l’applicazione di due sanzioni ulteriori e distinte dall’ordine di demolizione, ossia l’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale e l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria: tali sanzioni non sono volte a punire l’illecita realizzazione di opere edilizie, bensì la mancata ottemperanza all’ordine demolitorio; iv) la quarta ed ultima fase attiene alle modalità con le quali il Comune intende gestire i beni abusivi acquisiti, posto che l’Amministrazione, oltre a demolire le opere a spese del possessore, può decidere di mantenerle in presenza di rilevanti interessi pubblici e sempre che l’abuso non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.

Il Collegio, altresì, ha precisato la natura “amministrativa” dell’illecito edilizio, distinguendola da quella penalistica, ed evidenziando che la realizzazione di opere abusive si estrinseca in una condotta commissiva che arreca un danno perdurante ai valori tutelati costituzionalmente dagli art. 9, 41, 42 e 117 Cost., cui corrispondono il potere/dovere dell’Amministrazione di reprimere l’abuso e l’obbligo per l’autore di eliminarlo.

L’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, invece, si configura come un illecito di natura omissiva, che segue e si aggiunge alla realizzazione dell’abuso, punito con la perdita della proprietà del bene e l’irrogazione della sanzione pecuniaria: tali sanzioni, quindi, vengono irrogate in ragione del mancato adempimento dell’ordine impartito dall’Amministrazione comunale, che si configura come un illecito ad effetti permanenti e si consuma allo scadere del termine di 90 giorni assegnato con l’ordinanza di demolizione.

Con particolare riferimento alla sanzione economica, il Consiglio di Stato ha richiamato i principi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[1] ed ha sottolineato la sua finalità preventiva, essendo volta a dissuadere la collettività dalla commissione di illeciti edilizi, oltre che a salvaguardare il territorio nazionale: il comma 4 bis dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, pertanto, stabilisce la sanzione nei confronti del soggetto che ha omesso di adoperarsi per rimuovere gli abusi realizzati.

La sanzione ex art. 31, comma 4 bis, D.P.R. n. 380/2001, introdotta con la L. n. 164/2014.

Infine, il Collegio ha posto la sua attenzione sull’ipotesi in cui la predetta condotta omissiva sia stata compiuta in data antecedente all’introduzione della sanzione ex comma 4 bis, avvenuta con la L. n. 164/2014.

In primo luogo, nella Sentenza n. 16/2023 dell’Adunanza Plenaria sono stati rammentati i principi fissati dal vigente ordinamento, primo fra tutti il principio di irretroattività desumibile in materia sanzionatoria dall’art. 1 L. n. 689/1981 (ai sensi del quale “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”) e dall’art. 11 Disp. prel. cod. civ. (“La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”).

Assume particolare rilievo, secondo il Collegio, il principio della certezza dei rapporti giuridici: infatti, il soggetto che ha omesso di demolire le opere, prima dell’entrata in vigore della norma che introdotto la sanzione pecuniaria, ha agito nell’ambito di un quadro normativo che ricollegava all’inottemperanza unicamente la perdita della proprietà del bene trasferita di diritto al Comune.

Inoltre, sono stati rammentati i principi di tipicità e di coerenza: invero, posto che dopo il decorso del termine di 90 giorni il responsabile non può più rimediare all’abuso, avendone perso la titolarità, l’illecito omissivo non è più perdurante: per l’effetto, l’eventuale applicazione della sanzione pecuniaria a fattispecie omissive consumate prima della sua introduzione normativa implicherebbe punire un’omissione non più giuridicamente sussistente, essendo preclusa al responsabile qualsiasi possibilità di rimuovere gli abusi.

Sulla scorta di tali argomentazioni, dunque, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il seguente principio di diritto: la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 non può essere irrogata nei confronti di chi – prima dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 2014 – abbia già fatto decorrere inutilmente il termine di 90giorni e sia risultato inottemperante all’ordine di demolizione, pur se tale inottemperanza sia stata accertata dopo la sua entrata in vigore.

Infine, si evidenziano anche i seguenti ulteriori principi enunciati dal Consiglio di Stato nella Sentenza in esame, nella quale sono state affrontate anche altre rilevanti questioni attinenti, in particolare, l’imputabilità dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e le relative conseguenze, anche in capo al nudo proprietario “incolpevole” degli abusi realizzati: a) la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione entro il termine da esso fissato comporta la perduranza di una situazione contra ius e costituisce un illecito amministrativo omissivo propter rem, distinto dal precedente illecito – avente anche rilevanza penale – commesso con la realizzazione delle opere abusive;

b) la mancata ottemperanza – anche da parte del nudo proprietario – alla ordinanza di demolizione entro il termine previsto dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, impone l’emanazione dell’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale, tranne il caso in cui sia stata formulata l’istanza prevista dall’art. 36 del medesimo d.P.R. o sia stata dedotta e comprovata la non imputabilità dell’inottemperanza;

c) l’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale, emesso ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura dichiarativa e comporta – in base alle regole dell’obbligo propter rem – l’acquisto ipso iure del bene identificato nell’ordinanza di demolizione alla scadenza del termine di 90 giorni fissato con l’ordinanza di demolizione. Qualora per la prima volta sia con esso identificata l’area ulteriore acquisita, in aggiunta al manufatto abusivo, l’ordinanza ha natura parzialmente costitutiva in relazione solo a quest’ultima (comportando una fattispecie a formazione progressiva);

d) l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta la novazione oggettiva dell’obbligo del responsabile o del suo avente causa di ripristinare la legalità violata, poiché, a seguito dell’acquisto del bene da parte dell’Amministrazione, egli non può più demolire il manufatto abusivo e deve rimborsare all’Amministrazione le spese da essa sostenute per effettuare la demolizione d’ufficio, salva la possibilità che essa consenta anche in seguito che la demolizione venga posta in essere dal privato.

[1]Sentenza Engel e altri c. Paesi Basi, 08 giugno 1976

IL RISARCIMENTO DEL DANNO IN CASO DI ANNULLAMENTO DEL TITOLO EDILIZIO ILLEGITTIMO: il Comune risponde per concorso di colpa anche se l’errore è provocato dal richiedente. Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. n. 9879/2023

Il Consiglio di Stato ammette il diritto al risarcimento del danno cagionato dall’annullamento in autotutela di un permesso di costruire, anche nell’ipotesi in cui il titolo edilizio è stato rilasciato a seguito di un errore provocato dal richiedente.

Il caso.

La vicenda giudiziaria in merito alla quale si è pronunciato il Consiglio di Stato trae origine dal ricorso promosso da due soggetti richiedenti un permesso di costruire che consentiva anche l’installazione di un manufatto in legno presso un’area confinante con un tratto autostradale.

Tuttavia, Autostrade per l’Italia S.p.A. aveva segnalato che il predetto manufatto era stato installato all’interno della fascia di rispetto autostradale: per l’effetto, l’Amministrazione comunale aveva annullato in autotutela il titolo abilitativo, per violazione del vincolo stradale, limitatamente all’opera in questione.

I richiedenti, quindi, adivano il competente Tribunale Amministrativo Regionale per impugnare la decisione del Comune e, in via subordinata, chiedere il risarcimento del danno. Nella sentenza il TAR aveva in parte dichiarato il ricorso inammissibile ed in parte respinto l’impugnazione: in particolare, non veniva accolta l’istanza risarcitoria in quanto “La corresponsabilità dei ricorrenti – con un’esposizione parziale e incompleta della situazione di fatto [non rappresentante la sussistenza del vincolo stradale n.d.r.] – nel rilascio del titolo abilitativo privo di un parere obbligatorio depotenzia la pretesa avanzata, impedendo la configurazione del danno ingiusto”.

I ricorrenti proponevano appello avverso la Sentenza di prime cure dinanzi al Consiglio di Stato, eccependo che la richiesta del permesso di costruire era stata predisposta e presentata dal loro tecnico di fiducia e, quindi, essendo loro privi di specifica competenza nel settore ed in perfetta buona fede, avevano fatto affidamento sulla legittimità della richiesta e quindi del titolo abilitativo.

Inoltre, gli appellanti stigmatizzavano anche la condotta colposamente negligente del Comune il quale, oltre a non aver aggiornato gli elaborati cartografici allegati agli strumenti urbanistici e dai quali il tratto stradale in questione risultava classificato come “Extraurbana principale” di tipo “B” e non come “Autostrada” di tipo “A”, si era limitato a verificare il progetto senza valutare l’effettiva natura del tratto di strada confinante con il lotto interessato dall’intervento.

La Sentenza: Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. n. 9879/2023.

Il Consiglio di Stato, rilevando che il Tribunale Amministrativo Regionale adito, pur avendo ricostruito correttamente la vicenda sottesa al giudizio instaurato, non ha tratto le corrette conseguenze giuridiche, ha riformato la Sentenza gravata rinvenendo i presupposti della decisione nell’applicabilità dei principi del legittimo affidamento e del concorso di colpa del creditore ai sensi dell’art. 1227 c.c..

In particolare, il “legittimo affidamento”, elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, costituisce un principio fondamentale dell’azione amministrativa, che si sostanzia nell’interesse del privato alla tutela di una situazione che si è definita nella realtà giuridica per effetto di atti e comportamenti della Pubblica Amministrazione.

Tale principio risponde alla necessità di contemperare due interessi contrapposti: i) l’interesse vantato dal privato in ordine al mantenimento del vantaggio garantitogli dall’azione amministrativa; ii) l’interesse della Pubblica Amministrazione in merito all’attuazione dei principi di buon andamento e di imparzialità sanciti dall’art. 97 della Costituzione.

In un primo momento, l’ordinamento negava la possibilità per il privato di vantare un legittimo affidamento nei confronti della Pubblica Amministrazione che, se disatteso, gli garantisse persino una tutela risarcitoria.

In seguito, tale iniziale impostazione è mutata, allorquando è stata ammessa la possibilità, per la Pubblica Amministrazione, di utilizzare anche strumenti di natura privatistica ed agire jure privatorum, spogliandosi, quindi, della discrezionalità che caratterizza la sua azione e ponendosi allo stesso livello del singolo individuo.

Tale principio ha trovato applicazione mediante un lungo processo evolutivo svolto dalla giurisprudenza sovranazionale, che ha portato il legittimo affidamento ad essere considerato un principio cardine del diritto comunitario, quantunque non espressamente contemplato nei Trattati dell’Unione Europea.

Nel nostro ordinamento, invece, pur essendo privo di copertura normativa, il fondamento del principio del legittimo affidamento viene rinvenuto nella clausola generale di buona fede, intesa in senso oggettivo e consistente nel dovere dell’Amministrazione Pubblica di tenere un comportamento leale e collaborativo nei confronti degli altri individui in caso di compimento di atti giuridicamente rilevanti.

In merito, l’art. 1227, comma 1, c.c., ai sensi del quale “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”, regola l’efficienza causale del fatto colposo del soggetto leso, “parametrando” le conseguenze sulla determinazione dell’entità del risarcimento.

In precedenza, si riteneva che l’art. 1227 c.c. fosse espressione del principio di autoresponsabilità, che imponeva ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza, allo scopo di prevenire eventuali danni.

La più recente giurisprudenza[1], invece, ha ravvisato nella norma in parola un corollario del principio di causalità: ne deriva il principio per il quale non può essere imputato al danneggiante quella parte di danno a lui non causalmente imputabile.

Tale norma, infatti, trova il suo inquadramento nel principio causalistico: se l’evento lesivo è conseguenza del comportamento colposo del danneggiato, il nesso di causalità risulta interrotto con le possibili cause precedenti; al contrario, se il danneggiato ha solo parzialmente dato causa al verificarsi dell’evento dannoso, la sua responsabilità materiale deve essere proporzionalmente ridotta.

In applicazione del principio del legittimo affidamento, seppur non espressamente menzionato, e dell’art. 1227 c.c., la cui previsione è stata ripresa e sviluppata nell’art. 30, comma 3 ultimo capoverso, c.p.a. (“Nel determinare il risarcimento del danno il giudice valuta tutte le circostanze di fatto ed il comportamento complessivo delle parti e, comunque esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza anche attraverso l’esperimento dei mezzi di tutela previsti”), con la Sentenza n. 9879/2023 il Consiglio di Stato ha quindi affermato la concorrente responsabilità del Comune in ordine al danno patito dai titolari del titolo edilizio poi annullato.

Il Collegio, infatti, ha evidenziato che il Comune “non poteva ignorare l’esistenza del vincolo, e anzi sicuramente non la ignorava”, stante anche la sussistenza di atti deliberativi comunali che stabilivano la correzione degli elaborati grafici allegati allo strumento urbanistico, i quali classificavano erroneamente il tratto autostradale confinante con il lotto d’intervento.

L’Amministrazione comunale, dunque, ha omesso di compiere un’adeguata attività istruttoria prima di rilasciare il titolo edilizio in favore dei richiedenti, i quali hanno riposto il loro legittimo affidamento nella correttezza dell’operato comunale nel verificare la sussistenza di tutti i presupposti per la concessione del permesso di costruire: il comportamento dell’Amministrazione comunale, quindi, è risultato viziato da un inescusabile errore integrando l’elemento psicologico della colpa.

Inoltre, il Consiglio di Stato ha sottolineato che il permesso di costruire era corredato dall’asseverazione del progettista incaricato, il quale aveva attestato la conformità del manufatto alla normativa edilizia urbanistica in vigore, comprendente anche la dichiarazione di assenza di vincoli impeditivi dell’edificazione.

A fronte di tale circostanza, pertanto, il Collegio ha condannato il Comune ex art. 1227, comma 1, cod. civ., a risarcire la metà del danno subito” patito dai titolari del permesso di costruire annullato, posto che l’errore dell’Amministrazione comunale è stato comunque indotto dal comportamento corresponsabile dei richiedenti, tramite il proprio tecnico, i quali avevano dichiarato la conformità dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia.

Segnatamente, in merito all’imputazione in capo ai richiedenti dell’errore commesso dal loro tecnico, il Consiglio di Stato ha richiamato l’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale “Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo”.

[1]Cass. Civ., Sez. III, Ord. 7 maggio 2021, n. 12166

USUCAPIBILITÀ DI UN BENE ABUSIVO REALIZZATO SU AREA PARTE DEL PATRIMONIO INDISPONIBILE.<br>Corte di Cassazione, Sezione Seconda, Ordinanza n. 28481 del 12.10.2023.

Con Ordinanza n. 28481del 12.10.2023, la Sezione Seconda della Corte di Cassazione ha ribadito l’ammissibilità dell’acquisto per usucapione di un bene abusivo realizzato su terreno comunale, gravato da vincolo di inedificabilità, qualora non emerga specificatamente l’effettiva destinazione ad uso pubblico del bene appartenente al patrimonio indisponibile.

Per la Corte, inoltre, a nulla rileva il difetto del titolo edilizio in quanto tale vizio esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem, ribadendo, altresì, i requisiti necessari affinché un bene rientri nel patrimonio indisponibile e dunque non sia assoggettabile ad usucapione.

Beni pubblici: beni demaniali e patrimoniali.

I beni pubblici sono i beni che appartengono allo Stato o ad un altro ente pubblico atti al soddisfacimento di un pubblico interesse; si distinguono in i) beni demaniali e ii) beni patrimoniali.

i) I beni demaniali presentano i seguenti requisiti essenziali:

– sono sempre beni immobili o universalità di immobili;

– appartengono ad enti pubblici territoriali (Stato, Regioni, Province, Comuni);

– sono inalienabili, così come previsto dall’art. 825 c.c., ai sensi del quale “I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”;

– non sono acquistabili per usucapione, in quanto non possono formare oggetto di diritti di terzi, se non nei modi e limiti normativamente previsti;

–  non sono espropriabili.

Gli artt. 822 c.c. e seg. elencano tassativamente i beni appartenenti al demanio pubblico[1].

Appartengono al demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia e le opere destinate alla difesa nazionale.

I beni demaniali si distinguono ulteriormente in a) beni del demanio necessario o naturale, ossia i beni di esclusiva appartenenza dello Stato(i.e. il demanio marittimo, demanio militare e demanio idrico) e b) beni del demanio accidentale, ossia beni che possono non essere di proprietà di enti pubblici territoriali, come il demanio stradale o quello culturale.

ii) I beni patrimoniali possono anche essere beni mobili ed appartenere a qualsiasi ente pubblico (dunque non necessariamente territoriale), e si distinguono in a) beni del patrimonio indisponibile e b) beni del patrimonio disponibile.

a) I beni patrimoniali indisponibili presentano il vincolo della destinazione ad un servizio pubblico e devono essere effettivamente utilizzati per il servizio pubblico cui sono destinati.

Ai sensi dell’art. 826[2] c.c. sono beni patrimoniali indisponibili le foreste, le miniere, le acque minerali e termali, le cave e le torbiere, la fauna selvatica, ed i beni di interesse storico, archeologico, artistico, i beni militari non rientranti nel demanio militare, gli edifici destinati a sede degli uffici pubblici e i beni costituenti la dotazione del Presidente della Repubblica.

L’art. 828 c.c. stabilisce che “I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”.

b) I beni del patrimonio disponibile, infine, sono tutti gli altri beni, diversi da quelli demaniali o appartenenti al patrimonio indisponibile, tra cui rientra il patrimonio mobiliare, fondiario ed edilizio dello Stato o di altri enti pubblici.

Questi beni sono alienabili, usucapibili, assoggettabili a diritti reali di terzi e soggetti alle regole del codice civile.

I requisiti dell’usucapione: brevi cenni.

L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà o di altro diritto reale a titolo originario che trova disciplina negli artt. 1158 c.c. e seg..

L’usucapione risponde all’esigenza di eliminare le situazioni di incertezza circa l’appartenenza dei beni, in presenza di una consolidata situazione di fatto, qual è il possesso di un bene protratto per un certo tempo.

I requisiti dell’istituto sono i seguenti:

  • il potere di fatto sulla cosa (corpus possessionis): ovvero l’elemento oggettivo del possesso caratterizzato dal potere di fatto sulla cosa e, quindi, la soggezione della cosa al soggetto e la corrispondente signoria del soggetto sulla cosa stessa;
  • l’animus possidendi: rappresenta la componente soggettiva, intesa come intenzione di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale;
  • il possesso pacifico, inequivoco, pubblico e continuato;
  • il possesso ininterrotto nel tempo;
  • la mancata rivendicazione del bene da parte del proprietario.

L’Ordinanza n.28481 del 12.10.2023della Corte di Cassazione.

1) Il Caso.

La quaestio a fondamento del giudizio trae origine dalla richiesta da parte di un privato di accertare l’intervenuta usucapione su una porzione di terreno sul quale è stato realizzato un immobile in violazione del titolo edilizio.

Sia il Giudice di prime cure che il Giudice d’appello hanno rigettato la domanda, ritenendo l’immobile appartenente al patrimonio indisponibile, in quanto ricompreso nel piano paesaggistico e gestito dal Comune in funzione di un pubblico interesse e, dunque, non usucapibile.

Il privato ha proposto ricorso in Cassazione, eccependo in particolare i) la “violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 281 sexies c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 […]Secondo il ricorrente, per la qualificazione di un bene come appartenente al patrimonio indisponibile dell’ente sono necessari non solo la titolarità in capo all’ente, ma anche la manifestazione di volontà di quest’ultimo nel senso di voler destinare il bene a un pubblico servizio e l’effettiva e attuale destinazione del bene al pubblico servizio” e ii)la violazione e falsa applicazione degli artt. 826, 828 e 1145 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 […], per avere i giudici di merito ritenuto che il bene oggetto di domanda facesse parte del patrimonio indisponibile per destinazione del Comune di (Omissis) in ragione della sussistenza dei due requisiti soggettivo e oggettivo previsti a tal fine dall’art. 826 c.c.[3].

2) Il consolidato orientamento della Corte di Cassazione.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, affinché un bene possa considerarsi appartenente al patrimonio indisponibile, e pertanto non usucapibile, devono sussistere i) il requisito oggettivo, ossia la manifestazione della volontà dell’ente titolare del bene, espressa in un atto amministrativo, di destinare lo stesso ad un pubblico servizio e ii) l’elemento soggettivo, ovvero l’effettiva ed attuale destinazione del bene all’uso pubblico.

Sul punto la Corte di Cassazione  a Sezioni Unite nella Sentenza n. 14865/2006 ha affermato che “Al riguardo devesi, infatti, ribadire che, onde un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c., comma 3, deve sussistere il doppio requisito (soggettivo ed oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio) e dell’effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio (Cass., Sez. Un., 27 novembre 2002, n. 16831; Cass., Sez. Un., 15 luglio 1999, n. 391) , per cui non è sufficiente la semplice previsione dello strumento urbanistico circa la destinazione di un’area alla realizzazione di una finalità di interesse pubblico”.

Secondo tale orientamento, ai fini della qualificazione di un bene come appartenente al patrimonio indisponibile, occorre che il bene effettivamente e concretamente sia destinato al pubblico servizio, non bastando un semplice progetto di utilizzazione, rappresentativo di una volontà inattuata, ancorché espressa in un atto amministrativo, poiché questa non incide sulle caratteristiche oggettive del bene.

3) La decisione della Corte di Cassazione.

La Corte ha ritenuto fondati i motivi del ricorso, rilevando l’assenza dei requisiti necessari per l’identificazione del bene come facente parte del patrimonio indisponibile, ed in particolare l’elemento soggettivo; infatti: “Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, “affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c., comma 3, deve sussistere il doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio) e dell’effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio” (Cass., Sez. Un., del 28/06/2006, n. 14865; Cass., Sez. 2, 13/3/2007, n. 5867; Cass., Sez. 2, 9/6/2023, n. 17427), la cui mancanza deve essere desunta dalla decorrenza, rispetto all’adozione dell’atto amministrativo, di un periodo di tempo tale da non essere compatibile con l’utilizzazione in concreto del bene a fini di pubblica utilità (Cass., Sez. 2, 26/11/2020, n. 26990; Cass., Sez. Un., 16/12/2009, n. 26402), senza che rilevi l’appartenenza del bene a un ente pubblico economico, poiché sull’elemento soggettivo prevale quello oggettivo della destinazione concreta del bene al pubblico servizio (Cass., Sez. 3, 22/6/2004, n. 11608)”.

Ai fini della qualificazione di un bene come appartenente al patrimonio indisponibile “non è sufficiente la semplice previsione dello strumento urbanistico circa la destinazione di un’area alla realizzazione di una finalità di interesse pubblico (Cass., Sez. U., 28/06/2006, n. 14865 ), atteso che l’appartenenza di un bene alla categoria dei beni del patrimonio indisponibile, in quanto destinati ad un pubblico servizio, deve necessariamente riferirsi ad una concreta ed effettiva utilizzazione del bene e non ad un mero progetto di utilizzazione, che di per sé esprime solo una intenzione, la quale, ancorché espressa in un atto amministrativo, non incide, di per sé, sulle oggettive caratteristiche del bene”.

Per la Corte la verifica sull’effettiva utilizzazione del bene per pubblico interesse non è stata effettuata dai Giudici di merito che hanno desunto il vincolo pubblicistico ed attribuito la natura di bene patrimoniale indisponibile (dunque non usucapibile) “dalla sua ricomprensione nel piano paesaggistico di (Omissis), quale atto idoneo ad esprimere la volontà dell’ente, e dalla gestione comune del Comune di (Omissis) e del Comune di (Omissis) in funzione di pubblico interesse, omettendo di verificare in via di fatto se tale destinazione – peraltro in sé non indicativa di un’effettiva volontà in tal senso, stante l’assenza di disposizioni normative al riguardo nel D.M. di seguito indicato – avesse avuto materiale esecuzione”.

Per il Collegio a nulla rileva, ai fini del perfezionamento dei requisiti ad usucapionem, il fatto che l’immobile sia stato edificato senza il permesso di costruire poiché tale vizio ha rilevanza solo sul piano pubblicistico, inficiando unicamente il rapporto tra l’Amministrazione ed il privato.

La Corte, inoltre, non discostandosi dall’orientamento prevalente, introduce un ulteriore aspetto: “Né può darsi rilievo al vincolo di inedificabilità del fondo e alla illiceità della costruzione ivi realizzata, come evidenziato dal controricorrente, dovendosi confermare il principio secondo cui il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem”.

La Corte di Cassazione, dunque, ritenendo fondate le censure del ricorrente relative al mancato accertamento da parte dei Giudici di merito dell’effettiva destinazione pubblica del bene, ha accolto il ricorso e cassato la pronuncia con rinvio alla Corte d’Appello competente.

[1] Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia, e le opere destinate alla difesa nazionale.
Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico.
[2]I beni appartenenti allo Stato, alle Province e ai Comuni, i quali non siano della specie di quelli indicati dagli articoli precedenti, costituiscono il patrimonio dello Stato o, rispettivamente, delle Province e dei Comuni.
Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e le torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico ed artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra.
Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle Province e dei Comuni secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio.
[3]Cfr. Corte di Cassazione, Ord. n. 28481/2023.

IL SILENZIO-ASSENSO “ORIZZONTALE” NELL’AMBITO DEL PROCEDIMENTO DI RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA.<br> Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 8610/2023

Il Consiglio di Stato ammette l’applicabilità del silenzio-assenso cosiddetto “orizzontale” ex art. 17 bis L. n. 241/1990 nell’ambito di un procedimento di autorizzazione paesaggistica e, in particolare, al parere paesaggistico reso tardivamente nel corso di una conferenza di servizi indetta ai sensi dell’art. 14 bis L. n. 241/1990.

Il caso.

La vicenda giudiziaria in merito alla quale si è pronunciato il Consiglio di Stato trae origine dal ricorso promosso da un proprietario di un terreno ricompreso in area assoggettata a tutela paesaggistica ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. f) D.Lgs. n. 42/2004 e del D.M. 10.10.1967, il quale aveva richiesto il rilascio del permesso di costruire per l’edificazione di una residenza turistico-alberghiera e formulato domanda di autorizzazione paesaggistica.

L’Amministrazione comunale interessata aveva indetto la conferenza di servizi decisoria, in forma semplificata e con modalità asincrona ex art. 14 bis L. n. 241/1990, al fine di acquisire tutti i necessari atti di assenso, compreso il parere della competente Soprintendenza.

Tuttavia, la Soprintendenza aveva espresso il parere contrario ben oltre il termine assegnato dall’Amministrazione procedente la quale, dopo aver riattivato l’istruttoria procedimentale, cui è seguita la conferma del parere contrario da parte della Soprintendenza, rilevava che il dissenso espresso non era superabile senza apportare modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza, così come rappresentato nel parere contrario della Soprintendenza.

Il proprietario, quindi, adiva il competente Tribunale Amministrativo Regionale per impugnare la decisione del Comune; il giudizio si era concluso con l’accoglimento del ricorso: in particolare, il TAR aveva rilevato che “…agli atti risulta evidentemente inosservato il termine legalmente previsto per l’adozione del richiesto atto consultivo da parte dell’Autorità Tutoria; la circostanza dianzi acclarata, ossia l’intempestività dell’intervento consultivo da parte dell’autorità tutoria statale, ha finito per generare la formazione del silenzio assenso “orizzontale” o “interno” ex art. 14 bis, comma 4, della l. n. 241/1990 (di recente modificato dall’art. 12, comma 1, lett. g, del d.l. n. 76/2020, conv. in l. n. 120/2020) sull’istanza di autorizzazione paesaggistica relativa al progetto controverso e per implicare l’inefficacia ex art. 2, comma 8 bis, della l. n. 241/1990 del parere soprintendentizio negativo”.

Avverso la Sentenza di prime cure il Ministero della Cultura ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato eccependo che, per costante indirizzo giurisprudenziale, l’art. 17 bis L. n. 241/1990, in materia di silenzio-assenso endoprocedimentale, si applica solo ai rapporti orizzontali tra Amministrazioni e non anche al procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, posto che trattasi di procedimento mono-strutturato in cui prevale la volontà di una singola Pubblica Amministrazione.

Pertanto, il Ministero appellante ha sostenuto che il parere tardivo della Soprintendenza non sarebbe tamquam non esset e che di esso il Comune deve comunque tenere conto ai fini della determinazione in ordine al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

Il quadro normativo-giurisprudenziale.

Anteriormente alla “riforma Madia” del 2015, ai sensi dell’articolo 146 D.Lgs. n. 42/2004 in materia di autorizzazione paesaggistica, l’Autorità competente alla gestione del vincolo doveva provvedere sulla domanda del privato entro 60 giorni, acquisito il parere del Soprintendente (obbligatorio e vincolante fino alla conformazione o all’adeguamento dello strumento urbanistico alla nuova pianificazione paesaggistica), da rendere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti; in caso di inutile decorso del predetto termine si configurava il cosiddetto silenzio devolutivo: in sostanza, in mancanza del parere della Soprintendenza, il Comune procedente aveva il dovere funzionale di decidere autonomamente sulla domanda.

In questa ipotesi, il potere della Soprintendenza di esprimere il proprio parere veniva meno solo nel momento in cui il Comune avrebbe definito il procedimento con l’adozione dell’autorizzazione paesaggistica, non consumandosi automaticamente allo scadere del termine di 45 giorni: il parere ministeriale “tardivo”, dunque, non era nullo o annullabile, ma perdeva solo la sua efficacia vincolante e veniva degradato a mero parere obbligatorio, da dover comunque essere preso in considerazione dal Comune che non avesse ancora provveduto. Il Comune avrebbe poi dovuto obbligatoriamente motivare l’eventuale adozione di un provvedimento contrastante con il parere della Soprintendenza.

In tale contesto, assumeva particolare rilievo la distinzione tra silenzio devolutivo e silenzio-assenso: i) il primo imputava l’autorizzazione paesaggistica esclusivamente all’Ente territoriale che l’aveva rilasciata; ii) il secondo riconduceva il provvedimento (in co-decisione) ad entrambe le Amministrazioni.

Il quadro normativo, tuttavia, è cambiato con l’avvento della menzionata “riforma Madia”, la quale si è discostata dalla tradizionale attribuzione di una tutela rafforzata degli interessi sensibili (tra i quali la tutela ambientale) nell’ambito del procedimento amministrativo, introducendo il disposto di cui all’art. 17 bis L. n. 241/1990:la norma prevede che nelle ipotesi in cui un’Amministrazione procedente, su uno schema o una proposta di provvedimento, deve acquisire l’assenso, il concerto o il nulla osta, comunque denominati, di altre Pubbliche Amministrazioni, queste devono comunicare la propria determinazione entro un termine tassativo (30 giorni).In caso di inutile decorso di tale termine si forma ope legis il silenzio-assenso. Il comma 3 dell’articolo in questione stabilisce altresì che, in caso di mancata pronuncia, il silenzio-assenso si forma anche nelle ipotesi in cui le Amministrazioni chiamate a pronunciarsi (a fini decisori)siano quelle preposte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, dei beni culturali e della salute.

Nonostante l’innovazione normativa in questione, ricomprendente anche la “riscrittura” della disciplina della conferenza di servizi, parte della giurisprudenza ha comunque continuato ad applicare il modello del parere meramente devolutivo: secondo tale indirizzo interpretativo, in caso di pronuncia tardiva, ma comunque anteriore alla definizione del procedimento ed al rilascio del provvedimento autorizzativo da parte del Comune, il parere della Soprintendenza era da intendersi “dequotato” ad obbligatorio, restando efficace e fondando l’obbligo per l’Amministrazione procedente di esaminarlo e di motivare il proprio provvedimento finale in caso di dissenso.

Aderendo a tale indirizzo interpretativo, in alcune statuizioni anche inerenti l’acquisizione del parere della Soprintendenza nell’ambito di una conferenza di servizi, è stato affermato che la Soprintendenza, esprimendo il proprio parere sulla proposta di autorizzazione paesaggistica, deve ignorare la compresenza di qualsiasi altro interesse pubblico anche di analoga valenza quale, ad esempio, quello della tutela ambientale: le argomentazioni a sostegno di tali assunti muovevano dal presupposto per cui l’autorizzazione paesaggistica costituisce un provvedimento mono-strutturato, posto che il relativo procedimento è attivato ad istanza della parte interessata e non dell’Amministrazione procedente. Pertanto, il rapporto intercorrente tra la Regione, l’Ente locale e la Soprintendenza, nell’ambito del procedimento, è meramente interno e finalizzato a co-gestire la fase istruttoria e non quella decisoria.

Corollario di tale premessa argomentativa è stata l’inapplicabilità del precitato art. 17bis per il parere della Soprintendenza, posto chela norma non riguarda la fase istruttoria del procedimento amministrativo influendo solo sulla fase decisoria attraverso la formazione di un atto di assenso persilentium.

La disciplina del silenzio assenso “orizzontale”, dunque, andrebbe riferita agli assensi da rendere direttamente dall’Amministrazione procedente e non già al parere della Soprintendenza, che si esprime sulla proposta formulata dalla Regione o dall’Ente delegato, e non direttamente sulla compatibilità dell’intervento.

La Sentenza: Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 8610/2023.

Nella lunga e dettagliata Sentenza n. 8610/2023 il Consiglio di Stato ha smentito il richiamato orientamento giurisprudenziale, evidenziando preliminarmente che il procedimento di autorizzazione paesaggistica, anche alla luce dell’art. 146 D.Lgs. n. 42/2004 come novellato dalla riforma del 2011, deve essere più propriamente qualificato come pluristrutturato.

Per l’effetto, l’art. 17bis L. n. 241/1990trova applicazione proprio con riferimento ai procedimenti caratterizzati da una fase decisoria pluristrutturata e, dunque, nei casi in cui l’atto da acquisire, al di là del nomen iuris, abbia valenza co-decisoria.

Tale conclusione, già rilevata in un precedente parere dello stesso Consiglio di Stato[1],trova conferma non solo nel dettato testuale e nella ratio sottesa al citato art. 17 bis, ma anchenel “nuovo” art. 2, comma 8bis, L. n. 241/1990 il quale, riferendosi espressamente alle fattispecie del silenzio maturato nel corso di una conferenza di servizi ex art. 14bisL. n. 241/1990, afferma inequivocabilmente il principio (che non ammette eccezioni) per il quale le determinazioni tardive sono irrilevanti in quanto prive di effetti nei confronti dell’Autorità competente, e non soltanto prive di carattere vincolante come preteso dall’orientamento giurisprudenziale di segno contrario.

Pertanto, il Consiglio di Stato ha concluso che il silenzio-assenso “orizzontale” si configura anche nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica in seno alla conferenza di servizi, nell’ambito del quale la Soprintendenza è chiamata ad esprimere il parere che, se reso tardivamente, è da considerarsi tamquam non esset.

Infatti, a giudizio del Collegio, la volontà del Legislatore sottesa alle riforme che hanno interessato gli istituti di semplificazione di cui agli artt. 14bis e 17bis L. n. 241/1990 è stata quella di voler raggiungere un delicato punto di equilibrio tra la tutela degli interessi sensibili e l’esigenza di garantire una risposta (positiva o negativa) entro termini ragionevoli all’operatore economico il quale, diversamente, rimarrebbe esposto al rischio dell’omissione burocratica.

Il meccanismo del silenzio-assenso “orizzontale”, dunque, manifestando la contrarietà dell’ordinamento all’inerzia amministrativa, ricollega al silenzio dell’Amministrazione interpellata “la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei “rimedi”, ossia l’equiparazione del silenzio all’assenso con conseguente perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento”.

[1] Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 23 giugno 2016, Parere n. 1640/2016

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